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LA SINDROME DI STOCCOLMA

In occasione della liberazione della cooperante internazionale SILVIA ROMANO, e in seguito alle sue afferrmazioni sui sequestratori, abbiamo sentito parlare di Sindrome di Stoccolma.

La sindrome di Stoccolma è un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica.

Il soggetto affetto dalla sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà con l’aggressore.

La sindrome viene spesso evocata nei resoconti giornalistici o in opere di fantasia, ma non è inserita in nessun sistema internazionale di classificazione psichiatrica, non è classificata in nessun manuale di psicologia, ed è stata nominata soltanto in un ridotto numero di studi scientifici. Viene ritenuta un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra che diviene vittima di atteggiamenti aggressivi o di altri tipi di violenza.

Il termine Sindrome di Stoccolma è stato utilizzato per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio accaduto in Svezia tra il 25 ed il 28 agosto del 1973, quando Jan-Erik Olsson, un uomo di 32 anni evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tenne in ostaggio quattro impiegati (Elisabeth, 21 anni, cassiera; Kristin, 23 anni, stenografa; Brigitte, 31 anni, impiegata; Sven, 25 anni assunto da pochi giorni) nella camera di sicurezza della Sveriges Kreditbank di Stoccolma. Olsson chiese come riscatto anche la liberazione di un altro detenuto, Clark Olofsson; le autorità acconsentirono a tutte le richieste del sequestratore, compresa un’automobile per la fuga, ma rifiutarono di garantirgli la fuga insieme agli ostaggi.

La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore durarono oltre 130 ore al termine dei quali, grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia, i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza che nei loro confronti fosse stata posta in essere alcuna azione violenta da parte dei sequestratori.

Durante la prigionia, come risulterà in seguito dalle interviste psicologiche (fu il primo caso in cui si intervenne anche a livello psicologico su sequestrati), gli ostaggi temevano più la polizia che non gli stessi sequestratori. Rintanati all’interno di un ambiente ristretto raccontarono vari esempi di gentilezza da parte dei rapitori, come quando Olsson diede una giacca di lana all’ostaggio Kristin Enmark per il freddo, o quando la calmò a seguito di un brutto sogno, o quando le permise di camminare fuori dal caveau legata però a una corda di una decina di metri.  A seguito di quest’ultimo evento, la vittima raccontò un anno dopo, durante un’intervista, che sebbene fosse legata sentì gratitudine nei confronti del carceriere e che tutta una serie di gesti da parte del rapitore portarono le vittime a pensare che nonostante tutto venivano trattate con gentilezza.  Nel corso delle lunghe sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

Nonostante quindi la loro vita fosse continuamente messa in pericolo, durante il periodo di prigionia, che fu seguito con particolare attenzione dai mezzi di comunicazione, risultò che le vittime temevano più la polizia di quanto non temessero i rapitori, che una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori (che durò anche dopo l’episodio) e che dopo il rilascio venne chiesta dai sequestrati la clemenza per i sequestratori; durante il processo inoltre alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro favore.

La sindrome di Stoccolma è in definitiva un meccanismo di sopravvivenza. Chi ne soffre non è pazzo o mentalmente disturbato ma sviluppa una reazione psicologica di fronte ad un pericolo.

Lo psicologo Dee Graham ha teorzzato che la sindrome di Stoccolma si verifica molto anche a livello sociale. Si pensi a persone vittime di abusi o soprusi subiti sul posto di lavoro… eppure, queste stesse persone, quando subiscono la patologia della Sindrome di Stoccolma, anziché ribellarsi, denunciare, lottare, ringraziano il carnefice come fossero devoti. Nei casi più estremi questo tipo di sentimento può trasformarsi in amore o in totale sottomissione volontaria, che porta la vittima ad allearsi o a provare un sentimento di solidarietà con il suo assalitore.

Prima o poi cambierà”, “In fondo è una brava persona” ,“Lo devo a lui se porto a casa uno stipendio”, “Nonostante tutto io lo/a amo”, sono soltanto alcune delle affermazioni di chi subisce violenze e soprusi, ma è allo stesso tempo vittima della sindrome di Stoccolma.

Di sindrome di Stoccolma si può inoltre parlare anche in casi di violenza domestica. Le cronache sono piene di episodi di donne che, invece di denunciare i maltrattamenti in famiglia, si legano ancora di più ai propri uomini, forse nella speranza di poterli cambiare. In queste circostanze vengono attratte e illuse da piccoli gesti di gentilezza e finiscono per tollerare le varie forme di violenza. Putroppo le cronache sono anche  piene  di storie che finiscono in modo tragico.

Uscire da questa situazione paradossale non è mai facile e nemmeno garantito. Non esistono ricette magiche. Chi è vittima il più delle volte non sa nemmeno di esserlo.  In altre parole, non possiede la giusta lucidità per comprendere, ribellarsi e reagire. Cercare di farla “ragionare” potrebbe risultare del tutto inutile e controproducente. Può invece risultare valida un’arte antica come quella dell’ascolto, un ascolto senza giudizio, senza accuse, perché l’ascolto da sempre è percepito a livello inconscio come un aiuto concreto, una disponibilità rara oggigiorno. Far sentire la propria presenza, il proprio appoggio può diventare una medicina importante.

30 maggio 2020

Dott. Giuseppe Epifani