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Azione revocatoria tra fallimenti è inammissibile

Fonte: altalex.com

L’oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene ad esecuzione.

Il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, per il suo valore.

Nel caso in cui l’azione costitutiva non sia stata introdotta dai creditori dell’alienante prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce l’oggetto, essa non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (c.d. cristallizzazione), poiché si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente.

I creditori dell’alienante e per essi il curatore fallimentare, quando esso sia fallito, restano in questo caso tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al Giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.

Sono questi i principi sanciti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 12476 del 24 giugno 2020 (testo in calce) sulla questione dell’ammissibilità di azioni revocatorie (fallimentari ed ordinarie) tra fallimenti.

1. Il caso

La vicenda ha visto il curatore del fallimento di una s.r.l. in liquidazione chiedere, in sede di rivendica ai sensi dell’art. 103 L.F. che fosse dichiarata l’inefficacia ex art. 2901 c.c. ed art. 66 L.F. di alcuni atti dispositivi posti in essere dalla società quando si trovava in bonis nei confronti di un’altra s.r.l. della quale era in egual modo sopravvenuto il fallimento.

La domanda non veniva però accolta dal Giudice delegato ed il Tribunale rigettava a sua volta l’opposizione allo stato passivo avanzata dalla curatela della s.r.l. in liquidazione.

Il rigetto era motivato dall’orientamento secondo cui deve ritenersi inammissibile l’azione revocatoria proposta nei confronti di un fallimento dopo l’apertura del concorso, in virtù del principio della cristallizzazione del passivo fallimentare sancito dall’art. 52 L.F.

La curatela fallimentare ha indi proposto ricorso per cassazione, lamentando che sarebbe stato comunque possibile proporre l’azione revocatoria nei confronti della curatela fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento del terzo.

2. L’ordinanza interlocutoria

Con ordinanza interlocutoria n. 19881 del 23 luglio 2019, la Prima sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezione Unite, al fine di esaminare la questione relativa all’ammissibilità o meno dell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) nei confronti di un fallimento.

Il quesito era stato tuttavia già risolto negativamente dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità con la sentenza n. 30416 del 23 novembre 2018 che aveva affermato il principio secondo cui è inammissibile l’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) esperita nei confronti di un fallimento, poiché, da un lato, si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente e, dall’altro, in ragione del fatto che nel sistema opera il principio di cristallizzazione del passivo alla data dell’apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori.

La Prima sezione ha tuttavia sollecitato un ripensamento di questa posizione alla luce di alcune osservazioni avanzate in senso critico dalla dottrina.

La soluzione del problema potrebbe difatti essere differente in ragione dell’esigenza di assicurare tutela al ceto creditorio del soggetto disponentedinanzi ad un evento verificatosi prima del fallimento del beneficiario dell’atto, visto che: l’evento arricchirebbe i creditori di questo a danno di quelli del primo.

Gli argomenti che farebbero propendere per un cambiamento di rotta rispetto all’orientamento consolidato andrebbero dunque ricercati non solo in quanto disposto dall’art. 290 del D.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 (Codice della crisi di impresa), in tema di azione revocatoria proposta nei confronti di una società facente parte di un gruppo, ma anche dalla necessità di una rivalutazione della natura e della funzione dell’azione stessa che andrebbe rimodulata come azione di tipo dichiarativo.

Si osserva a tal proposito che l’orientamento sino ad ora sostenuto dalla giurisprudenza avrebbe un ambito limitato dall’oggetto costituito dalle revocatorie (fallimentari) di pagamenti, donde sarebbe opportuno formulare una riflessione per quanto concerne invece la fattispecie in cui il fallimento coinvolga il terzo acquirente di beni.

La tesi principale condurrebbe alla creazione di una fattispecie di “irrevocabilità sopravvenuta dell’acquisto”, così che il fallimento finirebbe per sanare l’acquisto medesimo per una vicenda propria del terzo avente causa.

Nell’ordinanza interlocutoria viene peraltro evidenziato, alla luce di quanto commentato da altra dottrina, che riconosce la natura costitutiva dell’azione, che tutti gli atti dispositivi, a prescindere dal loro oggetto, sono da ritenersi astrattamente revocabili ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’art. 66 L.F. e dell’art. 67 L.F.

3. La decisione

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale attualmente vigente sia per quanto concerne la natura e le modalità di produzione degli effetti dell’azione revocatoria sia per quanto riguarda il principio di cristallizzazione, ritenendo tuttavia opportuno formulare alcune precisazioni.

Le Sezioni Unite hanno innanzitutto ribadito il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, poiché essa modifica ex post una situazione giuridica preesistente.

Ciò avviene sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, gli atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando la restituzione dei beni e delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto.

La situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non è dunque espressione di un diritto di credito alla restituzione della somma o dei beni esistente prima ed indipendentemente dall’azione giudiziale, ma rappresenta invero un diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria rispetto al quale non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di un semplice atto di costituzione in mora.[1]

Le Sezioni Unite hanno poi ricordato che l’azione revocatoria è uno strumento di conservazione della garanzia generica del creditore che è costituita dal suo patrimonio, così come previsto dall’art. 2740 c.c.

La revocatoria realizza quindi lo scopo di recuperare nel patrimonio del debitore quanto occorre per soddisfare le ragioni dei creditori pregiudicati dalla conclusione dell’atto (c.d. inefficacia relativa dell’atto).

L’azione giova al creditore ovvero alla massa, laddove la domanda venga esercitata in ambito fallimentare, senza però incidere negativamente sull’esistenza o sulla validità dell’atto visto quanto disposto dall’art. 2902 c.c..

Il terzo acquirente del bene oggetto dell’atto impugnato con l’azione revocatoria rimane dunque titolare del diritto di proprietà, ma resta tuttavia esposto alle ragioni esecutive del creditore.

Più specificatamente, in ambito fallimentare, la sentenza di revoca è idonea a determinare l’inefficacia relativa nel caso in cui l’atto dispositivo sia stato posto in essere prima del fallimento dell’acquirente.

La sopravvenienza del fallimento dell’acquirente rileva non tanto per cristallizzare il passivo quanto piuttosto per cristallizzare l’asse fallimentare alla data del fallimento (art. 42 L.F.art. 44 L.F.art. 52 L.F.)

L’esercizio positivo dell’azione revocatoria sottrarrebbe dunque il bene alla garanzia dei creditori del fallimento dell’acquirente sulla base di un atto, vale a dire la sentenza, successiva al fallimento, il cui effetto retroagisce alla data della domanda.

Nel caso in cui la domanda sia stata proposta successivamente al fallimento dell’acquirente, l’azione revocatoria finirebbe per recuperare il bene alla garanzia patrimoniale del creditore alienante o del ceto creditorio a quest’ultimo riferibile.

L’azione revocatoria sottrarrebbe quindi il bene alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente sulla base di un titolo giudiziale formato dopo la sentenza dichiarativa del fallimento con efficacia postuma rispetto ad essa.

Si tratta di una situazione, secondo quanto affermato dai giudici di legittimità, che contrasta con quanto previsto dall’art. 42 L.F., art. 44 L.F., art. 45 L.F., art. 51 L.F ed art 52 L.F.

La sopravvenuta dichiarazione di fallimento dell’acquirente renderebbe impossibile proporre l’azione costitutiva alla luce di un evento occasionale ed estrinseco rispetto ai creditori dell’alienante.

Le Sezioni Unite, a tale proposito, hanno evidenziato che l’ordinanza interlocutoria ha indubbiamente colto un elemento di criticità del sistema, in quanto potrebbero essere pregiudicate le possibilità di tutela a seconda del caso in cui il terzo acquirente sia o meno fallito prima che i creditori dell’alienante od il curatore (in specie a sua volta fallito) abbiano potuto esperire l’azione a difesa della garanzia patrimoniale.

I Giudici di legittimità hanno confermato che l’esigenza di tutela non può rimanere inevasa, in quanto il sistema non può tollerare che i creditori dell’alienante rimangano irrimediabilmente danneggiati in specie da un fattore esterno come quello rappresentato dal sopravvenuto fallimento dell’acquirente del bene alla luce del principio sancito dall’art. 2740 c.c..

Le Sezioni Unite hanno tuttavia affermato che queste considerazioni non possono però essere poste alla base del tentativo di rivoluzionare le fondamenta dell’orientamento giurisprudenziale vigente.

È comunque emersa la necessità di individuare i criteri per la ricostruzione della posizione dei creditori che risulterebbero pregiudicati dall’atto dispositivo quando l’azione revocatoria non possa realizzare la propria funzione.

A tale proposito è opportuno rammentare che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sé, bensì la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori attraverso l’assoggettabilità del bene ad esecuzione.

Il bene dismesso con l’atto soggetto a revocatoria deve quindi essere preso in considerazione solamente per il suo valore.

Nel caso in cui l’assoggettabilità del bene all’esecuzione è impossibile poiché il cespite è stato alienato a terzi con atto opponibile ai creditori, la soluzione percorribile è dunque rappresentata dalla reintegrazione dei creditori per equivalente pecuniario.[2]

4. Le conclusioni

Alla luce dei principi e della ricostruzione della fattispecie sopra richiamata, le Sezioni Unite hanno in conclusione affermato che non è possibile esperire l’azione costitutiva quando il fallimento del terzo acquirente è stato dichiarato dopo l’atto di alienazione, ma prima che sia stata esercitata l’azione revocatoria.

Il fallimento del terzo acquirente rende infatti l’azione costitutiva inammissibile poiché non è consentito incidere sul patrimonio del fallimento, recuperando il bene alla sola garanzia patrimoniale del creditore dell’alienante.

Il bene non può difatti essere sottratto all’asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione del fallimento.

Le Sezioni Unite hanno tuttavia evidenziato che resta salva la possibilità di esercitare l’azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale.

Il fallimento dell’acquirente non impedisce difatti di poter proporre domanda di insinuazione al passivo per il corrispondente controvalore del bene.

Il principio di cristallazione del passivo non ha peraltro alcuna rilevanza impeditiva, in quanto non può essere precluso ai creditori dell’alienante di ottenere la reintegrazione per equivalente quando l’atto è anteriore al fallimento del terzo acquirente.

Il fallimento apre infatti il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, donde chiunque si affermi creditore ed intenda concorrere sul ricavato della liquidazione dei beni compresi nell’asse fallimentare, resta soggetto alle regole previste per l’accertamento del passivo a condizione che l’atto lesivo della garanzia patrimoniale sia anteriore alla sentenza di fallimento.

Le Sezioni Unite hanno, nel caso di specie, respinto il ricorso della curatela della s.r.l. che aveva proposto la domanda nella forma della rivendica ex art. 103 L.F. del bene oggetto dell’atto revocabile.

I Giudici di legittimità hanno a tal proposito rammentato che, sebbene la domanda di rivendicazione venga proposta nelle forme previste per l’insinuazione al passivo, l’oggetto dell’istanza è costituito dal bene in sé sul presupposto che la proprietà rimanga in capo al disponente.

Nell’ipotesi in cui sia stata conclusa la vendita con un atto revocabile, la revocatoria non travolge però l’atto impugnato, anche nel caso di esito vittorioso, e non determina che il bene possa essere rivendicato come facesse ancora parte del patrimonio del debitore.

La revocabilità dell’acquisto non incide difatti sul terzo acquirente, il quale continua a conservare inalterato il titolo di proprietà sul bene, per cui anche la domanda proposta secondo la forma della rivendicazione avrebbe conseguentemente dovuto essere in ogni caso rigettata.

CASSAZIONE, SS.UU. CIVILI, SENTENZA N. 12476/2020 >> SCARICA IL PDF