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Diffamazione su Facebook: rimozione del contenuto e ambito territoriale

Fonte: altalex.com

L’imposizione in uno Stato membro di un obbligo consistente nel rimuovere talune informazioni a livello mondiale (in conseguenza di un accertamento in fase sommaria), per tutti gli utenti di una piattaforma elettronica, a causa dell’illiceità di tali informazioni accertata in forza di una legge applicabile, avrebbe come conseguenza che l’accertamento del loro carattere illecito esplichi effetti in altri Stati. Considerando, però, le differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro, e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione.

La diffamazione in rete continua ad essere una delle questioni giurisdizionali più discusse nelle aule non solo dei tribunali italiani, ma di tutta l’Europa.

Nel caso di specie il Tribunale di Milano con l’ordinanza in argomento del 17 giugno 2020 (testo in calce) è chiamato a pronunciarsi su un caso di diffamazione in rete ed in particolare sulla legittimità di un’ordinanza emessa dal giudice ex art. 700 c.p.c. in accoglimento del ricorso di un manager diffamato dall’ex compagna, con la quale è stato ordinato alle società resistenti Facebook Inc., Facebook Ireland LTD e Instagram LLC di rimuovere, a livello mondiale tutti i contenuti contestati.

Le società nel reclamo avverso l’ordinanza, innanzitutto, in via preliminare, contestano la competenza del giudice italiano. A tal riguardo il tribunale osserva che la Corte di Cassazione ha più volte affermato che “ai fini di determinare l’ambito della giurisdizione italiana rispetto al convenuto non domiciliato né residente in Italia, occorre applicare i criteri stabiliti dalle sezioni 2″, 3″ e 4″ del titolo 2 della Convenzione, anche quando il convenuto stesso sia domiciliato in uno Stato non contraente della Convenzione” (così Cass. S.U. ord. 21.10.2009 n. 22239; cfr. anche Cass. S.U. ord. 27.2.2008 n. 5090; Cass. S.U. 12-04-2012, n. 5765).

Con riferimento al “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto “ è ormai consolidata nella giurisprudenza Europea il principio della piena dicotomia tra azione ed evento, secondo cui in caso di illeciti c.d. complessi o a distanza, caratterizzati dalla dissociazione geografica tra il luogo del fatto e il luogo del danno, è competente, a scelta dell’attore, sia il giudice del luogo del fatto generatore del danno (teoria dell’azione) sia il giudice del luogo in cui si è verificato il danno (teoria dell’evento).

La Corte di Cassazione, sin dal 2003, ha ribadito come – esaminando la struttura dell’illecito disciplinato a livello comunitario ai soli fini di determinazione della competenza giurisdizionale – il criterio di collegamento debba essere individuato o dal fatto generatore dell’illecito, ovvero dal luogo ove si sia prodotta la lesione diretta ed immediata del bene protetto, ancorché gli effetti mediati dell’evento di danno possano diversamente propagarsi nel tempo e nello spazio.

Ancora, in via generale, sostiene il tribunale bisogna osservare come il criterio di giurisdizione del “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto” debba essere interpretato facendo riferimento al centro di interessi del soggetto leso, e cioè il luogo della sua residenza abituale o dell’esercizio dell’attività professionale da parte della persona lesa (principi espressi dalla Corte di Giustizia con la sentenza 25.10.2011, C-509-9 – eDate Advertising e a. in un caso di diffamazione on line).

Tanto premesso, nel caso in esame, ritiene il giudice che l’evento illecito possa ritenersi dannoso nel momento in cui provochi la lesione concreta del bene protetto, in relazione al soggetto che per tale lesione chieda tutela. Nella specie, la detta lesione può ritenersi consumata nel luogo e nel momento in cui il soggetto leso abbia preso consapevolezza dei commenti denigratori postati sui profili Facebook e Instagram dell’ex convivente.

Tale consapevolezza ha trovato concreta attuazione nel paese di origine del danneggiato. Per tali motivi, non si può escludere la sussistenza della giurisdizione dell’autorità giurisdizionale italiana.

Riguardo, invece, la disciplina applicabile all’hosting provider il tribunale osserva che dagli atti di causa e dalle allegazioni delle parti emerge che: Facebook Ireland eroga un servizio online gratuito, mediante il quale gli utenti possono entrare in contatto e condividere informazioni, mentre Instagram eroga un servizio on line gratuito attraverso il quale gli utenti possono condividere e scambiare immagini e fa parte dei prodotti Facebook. Facebook e Instagram erogano, pertanto, servizi di fruizione di contenuti e di immagini, con mera prestazione di servizi di “ospitalità” di dati o hosting, senza proporre altri servizi di elaborazione dei dati. Non emerge in alcun modo, pertanto, l’avvenuta manipolazione dei dati immessi: di conseguenza non si può determinare il mutamento della natura del servizio descritto, che resta meramente “passivo”. Facebook ed Instagram, pertanto, possono essere qualificati come hosting provider passivi.

La fattispecie in esame, dunque, resta inquadrabile nella disciplina del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16. L’hosting provider risponde, ai sensi dell’art. 16, D.Lgs. n. 70/2003, ove non abbia immediatamente rimosso i contenuti illeciti comunicati al pubblico tramite i propri servizi o abbia continuato a pubblicarli, se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: (a) sia a conoscenza legale dell’illecito, anche a causa della comunicazione del titolare dei diritti; (b) possa ragionevolmente constatare l’illiceità dell’altrui condotta, conformemente al canone della diligenza professionale; (c) si possa attivare utilmente a tutela di tali contenuti protetti, in quanto sufficientemente a conoscenza dei materiali illeciti da rimuovere.

Con riferimento, invece, all’illiceità manifesta dei contenuti il tribunale chiarisce che la Suprema Corte, nella sentenza 7708/2019, ha precisato che tale illiceità “discende dalla violazione dell’altrui sfera giuridica, mediante un illecito civile o penale, comportante la lesione di diritti personalissimi, quali ad esempio il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale, all’immagine o alla riservatezza; o ancora, come nella specie, del diritto di autore”.

Nella pronuncia in esame, con riferimento al requisito della “conoscenza effettiva” la Cassazione, nella pronuncia appena citata, ha chiarito che: la conoscenza dell’altrui illecito, quale elemento costitutivo della responsabilità del prestatore stesso, coincide con l’esistenza di una comunicazione in tal senso operata dal terzo, il cui diritto si assuma leso; l’onere della prova a carico del mittente riguarda l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario; il sorgere dell’obbligo in capo al prestatore del servizio non richiede una “diffida” in senso tecnico – quale richiesta di adempimento dell’obbligo di rimozione dei documenti illeciti – essendo a ciò sufficiente la mera “comunicazione” o notizia della lesione del diritto.

Tanto premesso, nel caso in esame, sostiene il tribunale è pacifico che la “comunicazione” alle società odierne reclamanti sia avvenuta solo con la notifica del ricorso ex art. 700 c.p.c. – e, per i contenuti di cui agli allegati con la memoria autorizzata del 12.11.2019 – e, pertanto, solo in tale momento può ritenersi sorto l’obbligo dell’hosting provider.

Alla luce delle suesposte considerazioni il tribunale conclude, poi, per la manifesta illiceità dei contenuti oggetto di causa. In particolare dall’esame della documentazione prodotta è evidente la lesione del diritto all’onore ed alla reputazione del ricorrente mentre è da escludere, invece, la lesione del diritto al trattamento dei dati personali. Inoltre è da escludere la presenza di quei tre requisiti fondamentali che legittimerebbero l’esercizio del diritto fondamentale alla manifestazione del proprio pensiero e cioè: a) la verità, ossia la corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati, con la precisazione che può ritenersi sufficiente anche la sola verità putativa purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca; b) la pertinenza, ossia la sussistenza di un interesse ai fatti narrati da parte dell’opinione pubblica (Cass. civ. 15 dicembre 2004, n. 23366; Cass. civ. Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259); c) la continenza, ossia la correttezza con cui i fatti vengono esposti, con rispetto dei requisiti minimi di forma (Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259).

Una volta, quindi, accertata la manifesta illiceità (nei limiti sopra indicati), nella scelta dei rimedi ritiene il Tribunale, richiamata precedente giurisprudenza della corte di giustizia (nella causa C-507/17, Google LLC /Commission nationale de l’informatique et des libertès, CNIL), che, per assicurare al ricorrente una tutela effettiva, debba essere privilegiato il rimedio dal carattere fortemente incisivo, quale la rimozione definitiva dei contenuti. Con riferimento all’estensione territoriale di tale rimedio, in applicazione del principio di proporzionalità, in ragione della tipologia di contenuti pubblicati, delle caratteristiche del soggetto denigrato (il quale non svolge alcun ruolo pubblico) e dell’autore delle pubblicazioni (la ex compagna del ricorrente) e delle espressioni utilizzate (che in più parti fanno riferimento a vicende dal carattere privato, legate, ad esempio, alla volontà del ricorrente di non riconoscere il figlio), ritiene il Tribunale che l’ordine di rimozione sia idoneo a garantire una tutela effettiva senza necessità di estensione a tutto il mondo. Le attività lavorative svolte dal ricorrente (in particolare il ruolo di amministratore delegato in società dal rilievo internazionale, la lingua inglese in cui i post sono pubblicati ed il fatto che il figlio del ricorrente sia nato in Inghilterra) non giustificano, alla luce dei principi sopra richiamati, l’estensione territoriale a livello mondiale del predetto ordine di rimozione.

Ancora in merito all’ambito territoriale di riferimento, osserva il Collegio che la forte compressione della libertà di espressione – in Stati che, come evidenziato poco sopra, ben potrebbero prevedere discipline nazionali diverse da quella dello Stato che emette l’ordine – conseguente ad un ordine di rimozione a livello mondiale richiede, proprio per il delicato bilanciamento tra diritti fondamentali, in ossequio a principi costituzionali e sovranazionali, l’intervento dell’autorità giudiziaria e difficilmente sembra demandabile a società private, quali i motori di ricerca o i social network.

La rimozione, pertanto, deve essere effettuata da Facebook Ireland con riferimento agli Stati Europei (tra i quali rientra ancora la Gran Bretagna, atteso che, come è notorio, non risulta ancora decorso il periodo di transizione).

TRIBUNALE DI MILANO, ORDINANZA 17 GIUGNO 2020 >> SCARICA IL TESTO IN PDF

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