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Mantenimento del figlio maggiorenne: la svolta nel dibattito della dottrina

Fonte: altalex.com

I nuovi principi di diritto enunciati da Cassazione civile, ordinanza 16 luglio – 14 agosto 2020, n. 17183 sottoposti a fondati, ma non decisivi, rilievi di natura formale, a scapito di ignorati pregi sostanziali.

SommarioPremessaCriticità dell’ordinanza di Cass. 17138/2020I lavori preparatori della Legge n. 54/2006La conseguente lettura dell’art. 337 septies c.c.Le radici della problematicaL’assetto della famiglia separata secondo “giurisprudenza costante”Conclusioni

Premessa

Come era stato previsto (Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione)un animato dibattito, dai toni prevalentemente distruttivi, ha fatto seguito all’ordinanza n. 17183/2020 della Suprema Corte, che modifica profondamente i precedenti orientamenti in materia di mantenimento del figlio maggiorenne di genitori separati.

Le due più rilevanti novità, assieme ad altre importanti ricadute indirette, sono riassunte nell’ordinanza stessa come: “L’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggiore età del figlio; in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice” e “l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente”. Ovvero viene affrontata una materia di estrema delicatezza, che sottintende fenomeni innaturali e malsani come una frattura tra genitori e figli talmente profonda da richiedere l’intervento della giurisdizione anche solo per accertare e/o dichiarare l’esistenza o l’estinzione di un diritto.

Appare, quindi, indispensabile che, nell’intervenire nel dibattito in corso, non ci si limiti a una analisi accademica dei profili giuridici ma, ricostruendo la cronistoria degli interventi legislativi, si tenti di comprendere la genesi del fenomeno e le possibili modalità di contenimento.

Criticità dell’ordinanza di Cass. 17138/2020

Per chiarire i termini del confronto va subito evidenziato che l’uscita dell’ordinanza ha fatto più scopertamente emergere l’esistenza di due correnti di pensiero, quella alla quale si deve la riforma del 2006, complessivamente favorevole ai contenuti di Cass. n. 17138/2020, e l’altra, che tentò di impedirla, nettamente ostile.

In effetti, va riconosciuto che la decisione presta il fianco anche a rilievi che sembrano giustificati. Anzitutto, sotto il profilo giuridico formale è corretto rilevare che un provvedimento così innovativo avrebbe dovuto avere la forma della sentenza e non dell’ordinanza. Inoltre, visto che apre la via a situazioni concrete per le quali non esiste ancora una prassi per gestirle, sarebbe stata opportuna qualche considerazione sul modo di affrontarne le ricadute. Qualcosa viene detto, ma si poteva fare di più, ad esempio illustrando le procedure concrete da seguire nella fase di passaggio dalla minore alla maggiore età, delicata anche giuridicamente, per evitare scompensi.

Tuttavia, è alle sopra riportate conclusioni di diritto che sono state mosse la più pesanti critiche, in parte anche tecnicamente condivisibili.

Al centro della questione si colloca l’art. 337-septies comma I c.c. (quo vide). Ha lasciato comprensibilmente perplessi l’affermazione che il giudice può, intervenendo, costituire un diritto del figlio (all’assegno) prima inesistente, alla quale si obietta essenzialmente che il compimento della maggiore età nulla cambia, visto che gli artt. 147 e 315 bis c.c. nonché 30 della Costituzione non fanno alcun riferimento all’età dei figli. Pure condivisibile è la tesi che l’art. 337-septies c.c. ha il compito di descrivere differenze nelle modalità di gestione del mantenimento dopo il compimento del 18-esimo anno e che il dovere dei genitori di provvedere ai bisogni nasce dalla filiazione e prosegue senza cesure fino all’indipendenza economica, anziché essere ripristinato dal giudice dopo che si era estinto. Da questo punto in poi, tuttavia, sembra evidenziarsi uno scollamento – soprattutto di natura sostanziale – tra la lettura prevalente che la dottrina sta dando di Cass. 17183/2020 e il messaggio del legislatore del 2006, con il quale l‘ordinanza è di fatto molto più coerente.

I lavori preparatori della Legge n. 54/2006  

Per comprendere come ciò avvenga conviene considerare il percorso dei lavori preparatori della riforma del 2006, soffermandosi sul testo unificato, presentato alla Camera il 10 marzo 2005, ma andato al voto solo il 7 luglio dopo avere subito importanti manipolazioni. Fu necessario, infatti, svolgere una concitata trattativa politica – fuori del Parlamento – per ottenere al contempo il consenso di chi voleva il cambiamento e di chi premeva da tempo (dall’interno come dall’esterno) per conservare il modello monogenitoriale, più favorevole alla propria categoria (basti pensare che l’articolo sulla mediazione familiare venne fatto sopprimere all’ultimo minuto dalla Commissione Lavoro in sede consultiva). Pertanto, in assenza di una adeguato elaborazione tecnica si dette la forma attuale alla norma proposta allora, che recitava: “Art. 155-quinquies. – (Disposizioni in favore dei figli maggiorenni). Ai figli maggiorenni non indipendenti economicamente si applicano le disposizioni previste dall’articolo 155, quarto comma. Ove debba essere disposto il pagamento di un assegno periodico, esso deve essere versato direttamente al figlio, salvo che il giudice, valutate le circostanze, disponga diversamente.”. Una formulazione che lascia più facilmente capire di che assegno si tratti e quale sia il ruolo del giudice. È l’assegno perequativo che eventualmente un genitore corrisponde all’altro per il mantenimento del figlio, solo ove ciò sia necessario per rispettare la proporzione tra gli oneri e le risorse. E il giudice interviene solamente, al più (anche se non è un’idea brillante, visto che il figlio ha la capacità di agire e potrebbe provvedervi direttamente), per valutare se sia più comodo e agevole per il figlio (ad es. in Erasmus o con qualche disabilità) far accreditare il denaro sul conto corrente di uno dei genitori. È una interpretazione stiracchiata, indubbiamente, di un testo già allora ambiguo (grazie alle continue mediazioni politiche che hanno accompagnato tutto l’iter), anche se meno imperfetto dell’attuale; ma sembra l’unica che fornisca una spiegazione vagamente plausibile di quell’infelice riserva sulla valutazione delle circostanze. L’aspetto più interessante, comunque, e non equivoco è il riferimento alla forma diretta del mantenimento, che precede e ispira quella sull’assegno (v. oltre).

Restano, però, da comprendere gli scopi di chi volle portare il testo alla forma attuale. Serve, al tal fine, un altro importante passo indietro. Sull’introduzione dell’istituto dell’affidamento condiviso la Commissione Affari Sociali dette questo parere: “considerato che: appare apprezzabile la coerenza con la quale è stato presentato e difeso il principio di assicurare al figlio un riferimento nei due genitori costante e di pari potenziali opportunità, in modo da rendere flessibili nel tempo le modalità di frequentazione, adattandole alle sue esigenze senza necessità di nuovi processi e nuove sentenze;” esprime parere favorevole “ con le seguenti condizioni:

b) al quarto comma del medesimo articolo 155, dopo le parole «in forma diretta al mantenimento dei figli», si aggiungano le seguenti: «e per capitoli di spesa», al fine di evitare che si possa anche solo ipotizzare l’incapacità di suddividere le spese tra i genitori, ovvero che la determinazione del genitore soggetto all’onere avvenga di volta in volta;
c) sempre al quarto comma dell’articolo 155, dopo le parole «di un assegno perequativo periodico» si aggiungano le seguenti: «se necessario», affinché non si ritenga che un assegno debba comunque essere stabilito

Delle tre sottolineature, tutte presenti nel testo unificato approvato dalla Commissione Giustizia della Camera, le prime due sono scomparse dal testo finale; la terza è sfuggita ai tagli e resta a dimostrare l’illegittimità dell’attuale priorità data all’assegno. In altre parole, la Commissione Affari Sociali, la più idonea a valutare l’interesse dei figli anche perché meno soggetta a spinte corporative, lo vedeva realizzato nel paritetico impegno dei genitori nel prendersi cura di essi – cura comprensiva degli aspetti economici – e dava all’assegno una possibilità di utilizzazione solo residuale, perequativa.

Esattamente ciò che non volevano gli avversari della riforma, tenacemente affezionati al modello sbilanciato, con un genitore prevalente che decide e gestisce e l’altro che in sostanza si limita a pagare. La prescrittività dell’art. 337-septies c.c. del testo unificato, pertanto, che confermava inequivocabilmente la pariteticità dei genitori e la forma diretta del mantenimento almeno dopo il 18-esimo anno, doveva essere quanto meno attenuata. Si sostituì, pertanto, al verbo servile “dovere” il verbo “potere” e si spezzò in due il dettato, rendendo facoltativa la decisione di stabilire un assegno (di natura indefinita), subordinandola alla “valutazione delle circostanze”, e si allargarono ulteriormente i poteri discrezionali del magistrato mettendo in dubbio chi dovesse essere il percettore di assegno con l’aggiunta di “salvo diversa decisione del giudice”. La totale ambiguità che presenta un testo prodotto da una febbrile trattativa nel tentativo di fondere modelli incompatibili è responsabile delle difficoltà interpretative che qui si discutono, con inevitabili carenze logiche, quale che sia la tesi che si intende sostenere. E anche, si può aggiungere, assolve la Cassazione per avere messo nelle mani del giudice l’an e il cui e quindi, in definitiva, l’esercitabilità del diritto.

La conseguente lettura dell’art. 337 septies c.c.

Tutto ciò che può farsi adesso, senza alcuna pretesa di inattaccabilità formale, è suggerire una lettura applicativa del testo in vigore rispettosa della lettera, ma soprattutto attenta alla ratio legis e ispirata ai principi di equità e ragionevolezza.

Anzitutto, se il giudice “può” disporre vuol dire che è anche libero di “non” disporre. E siccome, seguendo la maggioranza degli interpreti, l’obbligo di mantenere i figli non cessa con la maggiore età il suo intervento deve riguardare il modo di contribuire al mantenimento. Ora, il modo privilegiato dalla legge (anche se la prassi attuale procede all’opposto) è quello diretto; conformemente oltre tutto alle esplicite dichiarazioni della Commissione Affari Sociali. Quindi il verbo “potere” starebbe a indicare che è facoltà del giudice trasformare la forma diretta del mantenimento in indiretta, quantificando l’equivalenza, ovvero la cifra in denaro che sostituisce i capitoli di spesa non legati alla convivenza (nella misura in cui convive: art. 315 bis IV comma c.c.). Una modalità che si adatta molto meglio sia alle presumibili capacità di autogestione del figlio maggiorenne che alle comunissime situazioni dello studente fuori sede. In questo caso si evidenzia ancor meglio che in debito con il figlio sono entrambi i genitori (separati), ciascuno dei quali dovrà erogare un assegno in suo favore. Periodicamente, è probabile, il figlio rientrerà al luogo di partenza, ospite a volte dell’uno a volte dell’altro genitore. Questo nell’ipotesi di comportamenti fisiologici di tutto il gruppo familiare.

Un quadro del genere suggerisce anche immediatamente come il resoconto dell’andamento degli studi – ovvero sostanzialmente l’onere della prova del diritto al mantenimento – dovrebbe spettare al figlio, nel caso in cui si eclissi per un lungo tempo, per evidenti motivi di equità e buonsenso e al tempo stesso secondo il principio di prossimità invocato da Cass. 17183/2020, assieme a quelli di “ragionevolezza” e di “normalità”. Il figlio sarà in difficoltà a fornirla solo se effettivamente abbia fatto altro: e quindi se è in torto. Diversamente gli basterà una fotocopia del libretto. Senza trascurare i vantaggi di tipo relazionale: “diritto all’amore” per il figlio, diritto al rispetto per il genitore (ancora art. 315 bis IV comma c.c.). Certamente l’accesso ai dati è possibile anche al genitore (anche se tutt’altro che agevole, come attesta proprio il caso dell’ordinanza) in forza del D.lgs n. 33/2013 (“accesso civico generalizzato”). Tuttavia, nella tipologia di specie in cui la relazione è interrotta – anziché obbligare un genitore emarginato dalla vita del figlio a svolgere odiose indagini per sapere che cosa gli è capitato e come sta vivendo, sarebbe sufficiente che questi, rompendo il silenzio e l’isolamento lo informasse direttamente e personalmente sull’andamento dei suoi studi e delle sue occupazioni. Un eccellente modo, probabilmente, anche per recuperare un sano rapporto.

Quanto al soggetto a cui versarlo è arduo ammettere legittima la prassi attuale che pretende che la regola sia versarlo al genitore ex collocatario (“non avente diritto”) e che si debba ricorrere al giudice per corrisponderlo all’avente diritto: la legge prevede esattamente il contrario. Per avere una “diversa” valutazione del giudice sarebbe logico che dovesse attivarsi il genitore che la desidera.  

Per completare l’argomento può essere utile rammentare come da subito in Parlamento ci si è impegnati per riscrivere la norma, che in effetti in ogni proposta di legge dal 2007 (pdl 2231, XV Legislatura) ad oggi è stata costantemente riveduta.

Le radici della problematica

D’altra parte, la situazione affrontata da Cass. n. 17183/2020 è talmente di per sé innaturale e malsana, ma allo stesso tempo diffusa, che non si può fare a meno di indagarne l’origine e chiedersi come sarebbe possibile limitarne l’incidenza.

Alla maggiore età il figlio, che prima era solo beneficiario di doveri dei suoi genitori, vede mutare radicalmente i contorni e i contenuti del suo diritto, divenendo autoresponsabile.

Allo stesso tempo, mutano profondamente i rapporti tra i genitori, se separati; soprattutto nell’ipotesi di regole asimmetriche. A partire dal fatto che cessa il regime di affidamento per cui, se in precedenza il figlio minore era non solo collocato asimmetricamente, ma addirittura affidato a un solo genitore con profonde differenze relazionali rispetto ad essi, dopo il 18º anno queste si annullano, come implicitamente conferma Cass. 17183/2020.  Un nuovo regime che comprensibilmente ha difficoltà a recepire chi in regime di affidamento condiviso aveva equiparato il genitore non collocatario al genitore non affidatario, e che ora si limita a definire genitore convivente chi in precedenza era stato denominato collocatario. Si tratta, come è intuibile, di quella larghissima componente degli interpreti del diritto di famiglia ai quali si devono provvedimenti di affidamento sbilanciato non occasionali (come quando il figlio è in allattamento, le abitazioni sono molto distanti, il padre è camionista ecc.), ma la sistematica opera di promozione della monogenitorialità vista come opzione ordinaria e prioritaria, alimentata, ad esempio, da protocolli e linee guida che la ufficializzano.

Una scelta adultocentrica che si concretizza in una quantità di aspetti della disciplina della famiglia separata. In sostanza, il collocatario è assimilato all’affidatario e il non collocatario al non affidatario in un quantità di circostanze: nelle sottrazioni di minore, come nel percepimento degli assegni familiari, come nella gestione delle spese straordinarie non concordate.           

Né si salva da questa impostazione il tema centrale qui trattato. La prassi interpretativa attribuisce al solo “genitore convivente” la legittimazione ad agire in giudizio iure proprio e non ex capite filiorum per richiamare l’altro ai suoi doveri.  Altrimenti, si dice, il mantenimento graverebbe tutto su di lui, costretto ad anticipare anche la parte dell’altro. Evidentemente si esclude che il primo (percettore automaticamente dell’assegno per il figlio se l’altro genitore non agisce in giudizio per poterlo versare al figlio) utilizzi male le risorse non a lui destinate, distraendole verso altri scopi, e che il figlio resti inerte. Esiste sempre e solo l’obbligato, al singolare.

Appare dunque evidente che la tesi dell’attribuzione al genitore obbligato dell’onere della prova riposa su un modello di famiglia separata che non corrisponde a quello deciso dal Parlamento nel 2006. Ogni ragionamento, ogni passaggio, ogni aspetto è trattato sulla base della convivenza dei figli con un solo genitore che li gestisce e provvede ai loro bisogni con denaro fornito dall’altro. Non a caso in dottrina è continuo il “lapsus” di chiamare “genitore affidatario” il genitore presso il quale il figlio ha quella che in regime di affidamento condiviso dovrebbe essere solo una residenza anagrafica. Allora, vista la sistematicità dell’approccio si è portati a concludere che ciò che preme è l’interesse di uno degli adulti, il cosiddetto “coniuge debole”, che scavalca quello dei figli, minorenni o maggiorenni che siano. Ovvero che il costante riferimento a preoccupazioni per i figli sia solo funzionale a far loro svolgere il ruolo di ponte verso l’interesse di uno dei genitori.

L’assetto della famiglia separata secondo “giurisprudenza costante”

Quanto esposto rafforza il dubbio che sia il modo in cui il sistema è impostato e gestito che produce le lamentate situazioni di estraniazione tra genitori e figli, che rendono poi necessario andare alla ricerca di “prove” da porre a carico dell’uno o dell’altro soggetto.

In altre parole, i rilievi che i commentatori hanno mosso all’ordinanza soffrono come minimo della decontestualizzazione, a dispetto dei frequenti sconfinamenti nella sociologia giuridica. Riflettendo, quindi, sull’origine concreta delle problematiche descritte, potrebbero essere individuate senza troppa fatica anche le strategie più idonee ad abbatterne la frequenza. Il modello fin qui dominante fa nascere già in partenza situazioni patologiche, potenzialmente dirompenti, attraverso artificiose discriminazioni, così incoraggiando la creazione di formazioni binomie (il figlio accanto al genitore collocatario), contrapposte a quella sorta di corpo estraneo che è il genitore non collocatario, che in non poche situazioni viene espulso completamente dall’ambito familiare.

Può anche aggiungersi che l’analisi della giurisprudenza della Suprema Corte rende anche più evidente il profondo solco scavato all’interno della famiglia separata – benché in affidamento condiviso – tra il sunnominato binomio e il genitore esterno ad esso, addirittura accreditando la legittimità della reciproca indifferenza, anche nella totale assenza di motivazioni. Si pensi a Cass. n. 6471/2020, che enuncia un principio di diritto, secondo il quale “il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione … trattandosi di un potere-funzione che … è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte”. Ad esso corrisponderebbe, secondo la stessa fonte, la libertà per il figlio di rifiutare qualsiasi contatto con quel genitore, senza dovere alcuna spiegazione: “Rimarca, in via speculare, il carattere non obbligato ed incoercibile del dovere di frequentazione del genitore, il diritto del figlio minore di frequentare il genitore quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata, per caratteri tanto più obiettivamente inverabili quanto più vicina sia la maggiore età e che, in quanto tali, possono spingersi fino al rifiuto stesso (Cass. 13/08/2019 n. 21341 non massimata, p. 8). Vale appena la pena di notare che considerando ugualmente facoltativi i rapporti tra il figlio e l’altro genitore (e non si può fare altrimenti, visto l’identico status) si va in contraddizione con i cardini della Costituzione e tutta la normativa che ne discende, ovvero il figlio rimarrebbe senza alcuna tutela da parte dei genitori; e viceversa.   La matrice ideologica, e non giuridica, del problema qui discusso non poteva essere evidenziata con maggiore nitidezza.

Curiosamente, infine, approfondendo l’analisi dei precedenti non appare convincente neppure l’invocare come punto di forza la “costanza della giurisprudenza” nell’affermare che anche in regime condiviso “debba” esserci un “genitore prevalente”. In effetti il valore del ripetersi di pronunce simili – utilizzato anche per censurare Cass. 17183/2020 che è andata contro corrente –  merita una riflessione. Indubbiamente, quando con un ragionamento proprio, condotto ex novo, la Suprema Corte giunge in occasioni distinte alle medesime conclusioni, la circostanza ha una notevole forza persuasiva. Ma così non sempre è; quanto meno non è avvenuto per l’aspetto qui discusso. Se si parte da una delle più recenti teorizzazioni della legittimità e opportunità di soluzioni sbilanciate in regime condiviso, come Cass. n. 6471/2020, e si risale all’indietro, rimbalzando di anno in anno nel seguire la giurisprudenza antecedente ivi citata, si arriva quanto meno a Cass. 6312/1999, scoprendo che le giustificazioni portate a sostegno del modello a genitore prevalente sono identiche – anche lessicalmente, copia e incolla – a quelle che un tempo sostenevano la ricerca del “genitore più idoneo”, da nominare affidatario esclusivo. Ovvero, come se la riforma del 2006 non ci fosse mai stata (con buona pace dell’art. 101 della Costituzione). Il che azzera valenza e peso all’argomento della “giurisprudenza costante”.

Giova, infine, segnalare che un’ordinanza della Suprema Corte sul medesimo tema, emanata dopo la 17183/2020, la 21752/2020, ripropone esattamente le vecchie pronunce, il che potrebbe far pensare ad una smentita, a un immediato ripensamento. Occorre, tuttavia, fare attenzione anche all’ordine in cui la Corte si è effettivamente pronunciata. Si scopre in tal caso che, sia pure di un giorno, la più recente è proprio quella a numero più basso, circostanza resa possibile dalla provenienza da sezioni diverse, la I e la VI. Quindi nessun revirement, come attesta la diversa modalità di redazione dei due provvedimenti: la 17183 intendeva, con tutta evidenza enunciare un principio di diritto, intorno al quale svolge una notevole quantità di considerazioni, mentre la 21262 si è limitata ad allinearsi pedissequamente con pronunce precedenti.

Conclusioni

In definitiva, l’ordinanza della Cassazione, in rilevante posizione di rottura con la giurisprudenza precedente, ben al di là del tema centrale – nell’apprezzabile e riuscito sforzo di aderire maggiormente alle prescrizioni di legge e ai principi di equità e ragionevolezza – presenta certamente alcune criticità, prevalentemente di tipo formale, correttamente rilevate da analisi di tipo accademico, attente soprattutto alla tutela del coniuge debole e del potere discrezionale della magistratura.

Queste, a loro volta, suggeriscono interpretazioni che si sostengono su assunzioni in contrasto sostanziale e formale con l’attuale cornice normativa, e che oltre tutto incentivano il crearsi delle situazioni di disagio che poi il sistema legale è chiamato ad affrontare.

Poiché le descritte difficoltà e disomogeneità applicative derivano in massima parte dalla infelice formulazione del testo di legge, è auspicabile che il Parlamento approdi quanto prima a quella riscrittura dell’art. 337-septies c.c., da tempo proposto al suo esame.

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