la voce a Sud

blog d'informazione online – attualità, cronaca, notizie, cultura, storia, gastronomia, spettacoli, informazioni, aggiornamenti ed eventi dal territorio

cose di giustizia

La Cassazione sulla efficacia causale della condotta colposa del lavoratore e sullo standard probatorio della condotta del datore in materia di infortuni sul lavoro.

Fonte: giurisprudenzapenale.com

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. IV, Sent. 26 ottobre 2020 (ud. 23 settembre 2020), n. 29585
Presidente Piccialli, Relatore Menichetti

Con la sentenza qui allegata, la Corte di cassazione, Sezione quarta, si è confrontata con un infortunio sul lavoro avvenuto nell’ambito di una attività di taglio di piante a considerevole altezza dal suolo. Al datore imputato, infatti, era contestata la violazione dell’art. 111, comma 1, lett. a), d. lgs. n. 81/2008 (rubricato “Obblighi del datore di lavoro nell’uso di attrezzature per lavori in quota”), per aver impartito ai propri dipendenti l’ordine di effettuare il taglio di una siepe alta 5 metri, senza fornire loro un’attrezzatura adeguata ed i presidi necessari per eseguire in piena sicurezza il lavoro in quota.

La Corte ha ribadito e applicato alcuni importanti principi in materia, con particolare riguardo (i.) alla efficacia causale della condotta colposa del lavoratore, eventualmente idonea ad escludere la responsabilità datoriale, nonché (ii.) allo standard probatorio necessario per accertare la condotta colposa del datore di lavoro.

Con riguardo al primo profilo, la Corte ha ricordato che “in linea di principio, la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio proprio della lavorazione svolta e di conseguenza il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute (…)”.

Il comportamento abnorme e imprevedibile del lavoratore deve necessariamente consistere “in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (…)”.

Più in particolare, “partendo dal presupposto che ciò che viene rimproverato al datore di lavoro è la mancata adozione di condotte atte a prevenire il rischio di infortuni, la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell’ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (…)”.

Sul questo punto la Corte si è pronunciata in senso conforme con altra sentenza, depositata lo stesso giorno e pubblicata in questa Rivista ivi.

Con riguardo al secondo profilo, la Corte ha censurato la soluzione offerta nel caso di specie dal Giudice territoriale, in quanto ritenuta “non sufficiente ed adeguata a sostenere una pronuncia di responsabilità degli imputati ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’”.

Sul punto, ha ricordato la Corte che “la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, ex art. 533, comma 1, cod. proc. pen., consente di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili ‘in rerum natura’ ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (…). Il procedimento logico conforme a tale canone legislativo – ispirato alla regola b.a.r.d. (beyond any reasonable doubt) di derivazione anglosassone – deve condurre dunque ad una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale e, quindi, alla ‘certezza processuale’ che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio (…)”.

Nel caso di specie “la Corte territoriale (…) ha escluso l’imprevedibilità del comportamento dei dipendenti dell’azienda, sottolineando l’esistenza di una prassi – cioè non il solo taglio basso della siepe effettuato da terra ma anche un taglio più in alto utilizzando il pianale di un camion – sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno rilevasse alcunché o impedisse tale improprio comportamento (…). Secondo i giudici di appello dunque, il fatto che gli imputati avessero sostenuto di non avere avuto conoscenza della modalità rischiosa con cui avveniva il taglio della siepe, non poteva costituire causa di esonero da responsabilità”. 

Secondo la Corte, non è certamente in discussione il fatto “che incombe sul datore di lavoro il compito di vigilare, anche mediante la nomina di un preposto, sulle modalità di svolgimento del lavoro in modo da garantire la corretta osservanza delle disposizioni atte a prevenire infortuni sul lavoro (…)”. E tuttavia, hanno osservato i Giudici, “la prassi di cui si parla in sentenza non corrisponde alla modalità operativa seguita il giorno del fatto. Infatti, la Corte di Venezia, quando parla della prassi (…) si riferisce ad altro, al fatto cioè che i lavoratori interni operavano da terra o al massimo sul furgone aziendale sulla parte bassa della siepe ed il giardiniere sulla parte alta con il carrello elevatore (…)”. 

A giudizio del Supremo Collegio “la sentenza impugnata presenta allora un vuoto motivazionale nell’equiparazione tra la prassi della salita sul pianale del camion aziendale e l’assemblaggio da parte dei due operai della struttura utilizzata per la prima volta il giorno dell’infortunio e neppure si sofferma sulla circostanza se anche la prassi di utilizzare per il taglio della siepe il pianale di un camion comportasse un lavoro ‘in quota’, ovvero ad un’altezza superiore a due metri, tale da imporre l’adozione di presidi di protezione individuale contro i rischi di caduta”.

Sulla base di tali considerazioni, ha concluso la Corte che, “mancando la prova certa di una pericolosa prassi invalsa in azienda (…) per effettuare in quota il taglio della siepe, e non potendosi escludere – per altro verso – una iniziativa estemporanea dei lavoratori, imprevedibile da parte datoriale, e dunque non essendo superato ‘ogni ragionevole dubbio’ nel rapporto di causalità tra le omissioni contestate in imputazione e l’evento mortale, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste”.

Exit mobile version