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cronaca

L’agonia e la solitudine di Antonio Stano nelle motivazioni del giudice

Fonte: lavocedimanduria.it

«Espressione di un’indole malvagia e insensibile ad ogni richiamo umanitario». Così il gip Vilma Gilli ha definito le condotte dei membri del gruppo «degli orfanelli» la babygang di Manduria che per mesi ha torturato e umiliato il 66enne con disabilità psichica Antonio Stano che dopo l’ultima di quelle violenze si chiuse in casa lasciandosi morire di fame e di stenti. Parole estremamente dure quelle utilizzate dal giudice nelle motivazioni della sentenza con la quale il 29 maggio scorso ha condannato tre maggiorenni del gruppo: 10 anni di reclusione il 20enne Gregorio Lamusta e il 24enne Antonio Spadavecchia e a 8 anni e 8 mesi il 20enne Vincenzo Mazza riconosciuti colpevoli di tortura, ma non della morte dell’uomo. Il magistrato ha parlato di «aggressioni immotivate, contegni sguaiati, vessatori e prevaricatori che andavano oltre l’inflizione della sofferenza fisica avendo, invece, come scopo ulteriore quello di terrorizzare la vittima, di porla in una condizione di soggezione, di stranirla per alimentare il proprio divertimento».Nelle 98 pagine il giudice Gilli ha chiarito come le decine di incursioni fatte dai giovani nella casa del disabile siano state tutti caratterizzate dalla «crudeltà dell’agire» evidenziando che «alle percosse con bastoni o a mani nude si sono affiancate le urla dì scherno, le parolacce, gli sputi, le offese, la derisione». Spedizioni organizzate e filmate per rinnovare «quella perversa soddisfazione facendo circolare i video e commentandoli compiaciuti». Insomma gli orfanelli non si sarebbero accontentati delle minacce, delle violenze e del denaro che il gruppo sottraeva a quell’uomo solo, gli orfanelli puntavano «a infliggerle un male aggiuntivo da cui trarre un malevolo godimento che alimentavano, appunto, anche nella condivisione dei video».

Il magistrato ha assolto i tre maggiorenni, difesi tra gli altri dagli avvocati Lorenzo Bullo e Gaetano Vitale, dall’accusa di omicidio riconoscendo che la morte non è stata la conseguenza diretta dei traumi riportati dopo le ultime violenze subite dall’uomo. Stano, quindi, è morto perché solo. Solo al punto che il giudice ha persino escluso dai risarcimenti come parti civili anche alcuni parenti spiegando che dal processo è emersa «l’assenza totale di un legame affettivo in qualunque modo coltivato».

Anche per i vicini, il magistrato ha ribadito che «gli stessi non lo abbiano mai concretamente aiutato, iniziando ad interessarsi di lui solo nell’ultimissimo periodo, con segnalazioni alle Forze dell’Ordine». Antonio Stano era solo. «Non aveva familiari e parenti – specifica il giudice – che gli facessero visita neppure durante le festività». La sua unica vita sociale era fare la spesa e salutare i vicini restando sull’uscio». Antonio Stano non aveva «non aveva neppure un telefono, cellulare o fisso, con cui contattare qualcuno nel caso di bisogno». Per questo era diventato «la facile preda di un manipolo di ragazzini senza scrupoli». Il suo stato di disagio e di isolamento sociale lo rendeva «inoffensivo e incapace di difendersi».

E proprio nei momenti in cui la baby gang lo torturava, Antonio lo ripeteva urlando «sono solo, sono solo». Invocava ripetutamente «aiuto, aiuto, Polizia, Finanza, Carabinieri», ma intorno a lui c’era solo una sorda gang che rideva, lo offendeva, lo picchiava e gli sputava addosso. Lo aveva raccontato ai poliziotti poco prima di morire: «Da sempre sono oggetto di scherno». Da sempre. Da tutta la vita. Per tutti, o quasi, Antonio era sempre stato solo «lu pacciu».

Francesco Casula su Quotidiano di Taranto