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Bigenitorialità: la Cassazione si conferma ostile

Fontealtalex

Sono state da tempo segnalate in dottrina circostanze che attestano il permanere di effetti di lungo termine dei decenni di affidamento monogenitoriale, a dispetto di convenzioni internazionali e cambiamenti giuridici interni.

Si aveva, tuttavia, la sensazione (o forse la speranza) che si trattasse di pronunce isolate, a carattere sporadico, non indicative di una posizione consolidata, ostile all’applicazione del nuovo istituto dell’affidamento condiviso.

In tempi più recenti, tuttavia, ha prevalso la constatazione del ripetersi in rapida sequenza di pronunce tutte a sostegno della restaurazione del modello adultocentrico e per giunta in senso monogenitoriale.

Stante l’elevatissimo credito della Suprema Corte – vista la funziona nomofilattica da essa svolta – è sembrato, quindi, opportuno riepilogare e accostare gli aspetti principali sui quali appare più evidente la distanza sia dalla ratio della riforma del 2006 che dalle attuali prescrizioni di legge, includendo nell’analisi anche recentissime pronunce del 2021, come Cass. Civ. ordinanza n. 4219/2021 e Cass. Civ., ordinanza n. 5059/2021; se non altro per indurre a una riflessione e aprire un dibattito.

D’altra parte, ritenendo sterile affrontare questioni di merito relative ai modelli, sulle quali tutte le opinioni sono sostenibili, verranno trattati solo aspetti di legittimità.

La distinzione, di per sé, dei genitori in “collocatario” e “non collocatario” e termini simili

La riforma del 2006, seguendone i lavori preparatori, nasce con il preciso scopo di passare da un modello che metteva i due genitori su un piano giuridico differente, sottolineato da una drastica attribuzione di maggiori poteri e competenze al genitore affidatario, a un altro modello che eliminava sistematicamente tali discriminazioni una per una, mettendo i figli al centro dell’interesse del legislatore e dell’interprete e introducendo il principio della bigenitorialità, nella convinzione che in tal modo si sarebbe ridotta drasticamente la conflittualità e permesso ai figli di godere di tutte le risorse educative e affettive che i genitori potessero fornire loro.

Tale diversa formulazione si presentava come diritto indisponibile in capo alla prole (art. 337 ter comma I c.c.) e ne costituiva un perno fondamentale, sia di per sé che per la qualità e la quantità delle ricadute, non rispettando il quale si sarebbe scardinata l’essenza stessa della riforma. E’ pertanto difficile comprendere su quali basi giuridiche si fondi l’artificiosa introduzione – pressoché costante nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità – di due categorie ben diverse di genitori, il “collocatario” e il “non collocatario” (o altre coppie di termini, anche di più pesante accezione, come convivente e non convivente), distinte non solo, banalmente, sotto il profilo della nomenclatura, ma caratterizzate, come nel seguito descritto, da profili giuridici differenti.

Appare, comunque, utile spazzare subito via una diffusa replica all’obiezione di cui sopra. Si sostiene, infatti, che la norma non prevede una pariteticità – sempre e comunque, a qualunque costo realizzata – dei due genitori: per cui la distinzione in collocatario e non collocatario sarebbe perfettamente lecita. Il fatto è che così argomentando si snatura l’obiezione. Ovvero, la tesi dei critici non consiste nel voler imporre in qualsiasi situazione il pari impegno dei genitori, ma nel farne un punto di partenza, un obiettivo virtuoso da perseguire prioritariamente e cercare di realizzare nei limiti del ragionevole.  Mentre la prassi imperante si muove in modo esattamente contrario, come dimostrano linee guida, protocolli e prestampati che esigono – a priori – l’individuazione di un genitore prevalente. Oltre tutto investito di poteri e doveri così distanti da quelli dell’altro genitore da uccidere direttamente il concetto stesso di bigenitorialità.

Snaturamento della qualità del rapporto dei figli con il genitore “non collocatario”

Per darne una immediata dimostrazione si può ripensare al già citato passaggio: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.”. L’aggettivo “significativi” caratterizza, dunque, il rapporto con gli ascendenti e i parenti e non quello con i genitori, che appare di ben maggior peso. Come del resto conferma l’articolo 315 bis comma II c.c. Ciò nonostante, non solo il ricorso alla suddetta distinzione tra genitori entrambi affidatari è ormai sistematico da parte della Suprema Corte, ma recentemente si è potuto leggere (Cass. 6471/2020): “Al diritto del genitore non convivente di continuare a mantenere rapporti significativi con i figli minori corrisponde, in via speculare, il diritto dei figli di continuare a mantenere rapporti significativi con il primo”.Il che vuol dire che per i figli si prevede un rapporto qualitativamente diverso tra un genitore e l’altro, in contraddizione, oltre tutto, con l’articolo 30 della costituzione che pone i due genitori in identica posizione rispetto ai figli. D’altra parte, la medesima marginalità di uno dei genitori, nonché la penalizzazione del suo rapporto con i figli è confermata da un altro termine discriminatorio, sistematicamente utilizzato anche nella giurisprudenza di legittimità e presente nel medesimo provvedimento della Suprema Corte: “ il diritto di visita del genitore non collocatario e quindi il diritto a mantenere il legame con il proprio figlio non ha carattere assoluto e deve procedere avendo sempre come parametro principale di riferimento il superiore interesse del minore.”. Da cui si potrebbe/dovrebbe dedurre a rigor di logica che invece i contatti con il genitore collocatario hanno carattere assoluto e possono anche scavalcare l’interesse del minore (!).

È opportuno sottolineare, tuttavia, che la Suprema Corte si spinge ben oltre, arrivando a ridelineare i rapporti interni alla famiglia separata sia nella relazione verticale discendente, genitore figlio, che in quella ascendente, figlio genitore. Sempre, ben inteso, relativamente al solo genitore non collocatario: “Il diritto – dovere di visita del figlio minore, che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614 bis cod. proc. civ., trattandosi di un potere – funzione non sussumibile negli obblighi, la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ., “ una grave inadempienza”, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”. (Cass. 6741/2020). Il che, evidentemente, lascia intendere che si vuole configurare come contingenti i rapporti tra il figlio e il genitore non collocatario, la cui funzione e il cui ruolo appaiono del tutto inessenziali. Un approccio che trova piena conferma poco oltre.

La possibilità per i figli di rifiutare il genitore non collocatario, ma non il collocatario

Si legge ancora, infatti: “…rimarca, in via speculare, il carattere non obbligato ed incoercibile del dovere di frequentazione del genitore il diritto del figlio minore di frequentare il genitore quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata”(Cass. 6741/2020). Dove la precedente citazione elimina ogni dubbio che quel genitore, nominato genericamente al singolare, non possa essere inteso che come il solo “non collocatario”; ancora una volta discriminato. 

Non meno interessante, tuttavia, è l’analisi di questa seconda parte, ovvero del diritto del figlio di rifiutare il genitore anche senza alcuna giustificazione, che spalanca la via all’alienazione genitoriale e che, non potendosi ipotizzare valido solo per i figli di genitori separati – giuridicamente indistinguibili dagli altri – apre scenari inimmaginabili, non trattabili in questa sede, per le future relazioni intrafamiliari.

Appare a questo punto indispensabile a chi scrive sottolineare nuovamente che non si intende prendere le distanze (pur abissali) sul piano del merito dal modello proposto, ma soltanto evidenziare come vengano introdotte differenze giuridiche tra i due genitori, che non trovano alcuna giustificazione in una normativa che fa dei due genitori soggetti indistinguibili sotto il profilo della legge.

Bigenitorialità come stabilità logistica presso il “genitore più idoneo”. Residenza ”abituale”

Tutto questo conduce a chiedersi quali contenuti intenda attribuire la Suprema Corte al concetto di “bigenitorialità”, che pure continuamente rammenta quale valore cui ispirarsi. La risposta è fornita dalla Corte stessa, anche se richiederà qualche approfondimento: “… va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione» (Cass. 9764/2019). Definizione che di per sé potrebbe essere considerata ineccepibile, ma che suscita non poche perplessità se decifrata inserendola in altri analoghi contesti. Difatti, la “consolidata” giurisprudenza di legittimità, rimandando sistematicamente e spontaneamente all’indietro nel tempo permette di verificare non solo che il concetto di stabilità è ancora una volta agganciato a quello di permanenza privilegiata presso il “genitore prevalente”, ma che per l’individuazione di questo vengono esplicitamente indicati gli stessi criteri, più o meno con gli stessi giri di parole, un tempo utilizzati per selezionare il genitore unico affidatario (ex pluris, Cass. 18817/2015 e Cass. 6312/1999). Ovvero si conclude che la Suprema Corte è passata attraverso la riforma del 2006 senza accorgersene.

D’altra parte, giungono dal sistema legale e dalle istituzioni vari altri segnali che attestano la perfetta identificazione del genitore non collocatario con il non affidatario e del collocatario con l’affidatario esclusivo.  Si pensi, ad es., al modo in cui il Ministero della Giustizia presenta nel proprio sito la disciplina dei cambiamenti unilaterali di residenza, differenziando gli esiti a seconda che ne sia protagonista il genitore collocatario o il non collocatario e così caratterizzando le possibilità di frequentazione di quest’ultimo: “Per diritto di visita si intende il diritto del genitore non collocatario o non affidatario (e cioè del genitore che ha l’affidamento condiviso, ma presso il quale il minore non vive quotidianamente; ovvero del genitore che non ha l’affidamento condiviso), di trascorrere del tempo con il proprio figlio, eventualmente portandolo nello Stato della propria residenza per un periodo di tempo definito (ad esempio durante le vacanze).”

Altrettanto bizzarre sono l’introduzione nel codice civile e l’applicazione del concetto di “residenza abituale”. Già questa operazione parte con il piede sbagliato, nulla avendo a che fare con l’equiparazione della filiazione naturale di quella legittima e dunque essendo estranea al mandato che ha condotto al D.lgs. n. 154 del 2013, dove si è compiuta del tutto fuori delega. Resta il fatto che avrebbe dovuto intendersi, secondo il diritto internazionale dal quale è stato mutuato, come  «il luogo in cui il minore, in virtú  di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località la sua quotidiana vita di relazione» e «prescinde dall’eventuale diritto soggettivo del genitore di pretendere una diversa collocazione del figlio, e prescinde altresí dai progetti di vita, eventualmente concordi, degli adulti» (Cass. 6197/2010). Viceversa, la Suprema Corte, probabilmente influenzata dal prevalente peso dato al genitore collocatario, lo ha subordinato agli umori di quest’ultimo, affermando che «… sarà necessaria una prognosi sulla possibilità che la nuova dimora diventi l’effettivo, stabile e duraturo centro di affetti e di interessi del minore» (Cass. 21285/2015). Possibilità subordinata alla volontà del genitore collocatario che ha effettuato abusivamente il trasferimento e che quindi, come è ovvio, non ha alcuna intenzione di rientrare; e il sistema legale si piega alla sua volontà.

Lo snaturamento del diritto del figlio minorenne ad essere sentito

Come è ben noto, dalle convenzioni internazionali che l’Italia ha firmato è derivato l’obbligo per il giudice di procedere ad una audizione dei figli minorenni, che il codice civile così introduce: “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 337 ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.” Dove la separazione dei mezzi di prova dall’ascolto del minore attraverso l’avverbio “inoltre” dimostra che la legge non consente che le dichiarazioni dei figli siano utilizzate quale strumento di indagine. Non è d’accordo, tuttavia, la Suprema Corte che recentemente si è così espressa: “,… i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e affettivo del figlio minore dall’altro genitore, potendo il giudice di merito, a tal fine, utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia, ivi compreso l’ascolto del minore” (Cass. 28723/2020). Una differenza tutt’altro che secondaria, ove si consideri che audire significa dare la parola e ascoltare in silenzio ciò che il figlio minorenne abbia liberamente intenzione di dire. Viceversa, l’acquisizione di mezzi di prova comporta il capovolgimento delle procedure ovvero il figlio è chiamato a rispondere a un vero e proprio interrogatorio.

Naturalmente, se questa discutibile visione si fosse presentata occasionalmente la sua rilevanza potrebbe considerarsi secondaria. Ma purtroppo così non è. Ovvero in effetti che questo sia l’approccio dominante all’ascolto del sistema legale è provato dalla consuetudine di delegare al consulente tecnico di ufficio (CTU) il compito di procedere all’ascolto del minore. Un esempio fra i tanti: ““…il Ctu dovrà indagare l’effettiva volontà del minore circa il luogo in cui desidera vivere in modo prevalente e circa il modo e i contenuti e i tempi di frequentazione di entrambi i genitori. Infine, dovrà redigere un apposito verbale contenente le dichiarazioni”. (Tribunale di Milano, Sez. IX sentenza 10217, 20 marzo 2014). Dove i diritti dei figli vengono due volte violati, sia sul punto dell’ascolto che su quello della bigenitorialità, visto che lo si costringe ad operare una scelta.

Il capovolgimento delle priorità tra mantenimento diretto e indiretto

È ampiamente sostenuto in dottrina che la forma diretta di mantenimento dei figli in regime condiviso sia quella che la norma prescrive di considerare per prima e dalla quale si può derogare solo limitatamente, potendo il giudice disporre la corresponsione di un assegno di natura integrativa o perequativa quando la distanza tra le disponibilità dei due genitori sia talmente grande da impedire una contribuzione diretta di entrambi facendo ricorso ciascuno solamente alle proprie sostanze.

Formulazione chiara e lineare, tanto che il primo intervento della Suprema Corte recitava: “l’assegno per il figlio” può essere disposto “in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore” (Cass. 23411/2009, est. Dogliotti, pres. Luccioli). Malauguratamente in quella stessa ordinanza proseguendo si leggeva: “E’ da ritenere peraltro che la corresponsione di assegno si riveli quanto meno opportuna, se non necessaria, quando … l’affidamento condiviso preveda una collocazione prevalente presso uno dei genitori … Il genitore collocatario, essendo più ampio il tempo di permanenza presso di lui, avrà necessità di gestire, almeno in parte, il contributo al mantenimento da parte dell’altro genitore, dovendo provvedere in misura più ampia alle spese correnti e all’acquisto di beni durevoli che non appartengono necessariamente alle spese straordinarie (indumenti, libri…).”. Volendo mantenere fede al proposito di trattare in questa sede solo questioni di legittimità si sorvolerà sulla evidente mancanza di logica del collegamento tra voci di spesa che non hanno a che fare con la convivenza (indumenti, libri) e i tempi più o meno lunghi della presenza dei figli; facendo notare, invece, l’illegittimità – oltre che l’irrazionalità – della discriminazione tra i due genitori, affermando che la valutazione della proporzione tra oneri e risorse debba farsi soltanto a vantaggio del collocatario. In concreto, poiché seguendo il favor della cassazione virtualmente tutte le corti di merito fanno ricorso a protocolli e prestampati che prevedono la scelta di un genitore collocatario, nel momento in cui si sostiene che se c’è un collocatario la forma prioritaria del mantenimento deve essere quella indiretta si realizza un capovolgimento delle priorità affermate dalla norma. Di passaggio, non si può fare a meno di notare il diffusissimo errore di fondo secondo il quale ci si chiede (e lo si decide con i protocolli) quali sono le voci di spesa comprese nell’assegno di mantenimento e quali quelle escluse. In pratica, per la prevalente giurisprudenza, di legittimità e di merito, esiste una sorta di dubbio permanente (ansiogeno, frustrante e conflittuale per i genitori) su quali spese siano da considerare ordinarie e quali straordinarie, inserendo tipicamente tra le prime – comprese nell’assegno – quelle destinate a soddisfare i bisogni e le normali esigenze di vita quotidiana della prole: ad esempio, l’alimentazione, l’abbigliamento, l’acquisto dei medicinali da banco; le visite di controllo routinarie; ecc. Ed è proprio con questo tipo di assunzioni che si induce la marginalizzazione concettuale e pratica di uno dei genitori – spesso indicato come colui “che non vive con i figli “:  il che rappresenta la precisa negazione del diritto alla bigenitorialità

La natura dell’errore può essere ben compresa facendo riferimento a una situazione limite, che rende tutto molto più chiaro. Si consideri una famiglia monoreddito, ad esempio con il solo padre che lo produce, per € 3000,00 al mese, mentre la madre è nullatenente e nullafacente, e si ipotizzi che per i figli occorrano € 1000,00 al mese. Per consentire la partecipazione della madre al mantenimento dei figli in forma diretta, utilizzando l’assegno perequativo, il padre (a prescindere dalla regolazione dei rapporti di coppia) passerà alla madre 500,00  € al mese. A questo punto che senso ha chiedere cosa è compreso nell’assegno e che cosa ne è escluso? Tutto e nulla. La madre utilizzerà quel denaro in parte per coprire le spese legate alla convivenza con lei e in parte per provvedere a quelle voci di spesa alle quali si sia stabilito che debba provvedere lei. Il padre farà altrettanto con altri 500,00 €. Ancora una volta la matrice di questo rilevante equivoco risiede nell’avere ritenuto di diversa natura i ruoli e le funzioni dei due genitori, entrambi affidatari in regime condiviso.

Il diritto del genitore collocatario di ricevere un assegno dal non collocatario

E quanto appena segnalato rappresenta un malinteso che diventa ancora più evidente e rilevante in una successiva pronuncia: “nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277 cod. civ., in tema di mantenimento dei figli … , la regola dell’affidamento condiviso a entrambi i genitori ai sensi dell’art. 155 cod. civ. … non implica deroga al principio secondo il quale ciascun genitore deve provvedere alla soddisfazione dei bisogni dei figli in misura proporzionale al suo reddito. In applicazione di essa, pertanto, il giudice deve disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, va posto a carico del genitore non collocatario, prevedendone lo stesso art. 155 la determinazione in relazione ai tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore” (Cass. 22502/2009; est. Felicetti).

La dottrina, prevedibilmente, fece subito notare l’incompatibilità di questa tesi con le prescrizioni di legge che prevedono che non solo il tempo debba essere considerato ai fini della regolazione dei rapporti economici ma, con altrettanta se non maggiore rilevanza, le risorse economiche di ciascuno dei genitori, tanto che – anche ragionando all’interno del mantenimento indiretto – l’insieme dei parametri potrebbe condurre a un diritto del genitore non collocatario a percepire un assegno dall’altro. La Suprema Corte, tuttavia, anziché tornare sui suoi passi ha reagito tentando di mantenere il punto, anzi di consolidarlo.

Il ragionamento (secondo Cass. 785/2012) è stato che il giudice è autorizzato a optare sempre e comunque come vuole tra mantenimento diretto e indiretto dal secondo comma dell’art. 337 ter c.c., che a lui dà facoltà di scegliere liberamente tra le due forme, dal momento che recita: “Per realizzare la finalita’ indicata dal primo comma … il giudice … determina i tempi e le modalita’ della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresi’ la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.”. Una tesi niente affatto convincente ove si consideri che la normativa dedica alla forma e misura del mantenimento dei figli uno specifico passaggio, il comma IV dell’articolo 337 ter c.c., mentre al secondo comma si limita a dare una generica indicazione di principio; oltre tutto anche doverosa è indispensabile, ove si consideri che il giudice è chiamato comunque a intervenire sulla forma del mantenimento nel momento in cui, ad esempio, si debba decidere sulla ripartizione dei capitoli di spesa (ad es., entrambi i genitori desiderano provvedere all’abbigliamento). Per tacere su quanto previsto dall’articolo 337 quinquies c.c. che, in caso di inadempimento, permette di tornare alla forma di mantenimento indiretto.

E tuttavia, da quando è uscita questa pronuncia ormai non si discute più sulla forma del mantenimento: si determina l’entità dell’assegno e se ci sono obiezioni si rimanda serenamente a Cass. 785/2012.

Il potere decisionale sulle “spese straordinarie” e il relativo diritto al rimborso in capo al solo collocatario

Forse, tuttavia, ancora più pesanti sono le ricadute su una corretta gestione dell’affidamento condiviso dovute all’artificiosa introduzione del genitore prevalente quando si consideri come questa vada di influire sul potere decisionale nella gestione dei figli e quindi proprio sugli aspetti che i figli di genitori separati più direttamente vivono e percepiscono. In pratica, il modello che attribuisce al genitore prevalente il diritto di ricevere dell’anonimo denaro dall’altro si completa concretamente – anche se non necessariamente – con l’attribuzione al medesimo della facoltà di operare unilateralmente una serie di scelte, per taluni comprese le più significative. Si è già visto come il “genitore collocatario” sia titolare in esclusiva di quanto serve per le spese ordinarie e della relativa gestione. In aggiunta, però, i suoi poteri (e ovviamente le sue responsabilità) si dilatano enormemente quando si passa a considerare le cosiddette “spese straordinarie”, pur all’interno di valutazioni piuttosto ondivaghe.

Tra i primi interventi che legittimano uno squilibrio del genere si può rammentare Cass. civ. sez. I, 27 aprile 2011, n. 9376, dove si legge:

In tema di divorzio, poiché l’art. 6, quarto comma della legge 1 dicembre 1970, n. 898, modificata dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, consente al coniuge non affidatario d’intervenire nell’interesse dei figli solo con riguardo alle “decisioni di maggiore interesse”, non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie … nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli; tuttavia tale principio non è inderogabile, essendo possibile che il giudice stabilisca oltre che la misura, anche i modi (tra i quali la previa concertazione), in modo difforme da quanto previsto, in linea di principio, dalla legge.” Osservato, anzitutto, che l’obbligo di contribuzione da parte del genitore non collocatario non è subordinato a requisiti particolari (ad esempio, di urgenza, necessità o non eccessiva onerosità della spesa), le tesi della Corte possono essere così riassunte: nel 2011, vista la riforma del 2006, ci si doveva riferire, al più, al “genitore collocatario”, ma sembra che “affidatario” sia la stessa cosa (a dispetto del fatto che mentre un tempo erano non affidatari anche genitori perfettamente idonei, per le norme attuali per non essere affidatario occorre che un genitore costituisca motivo di pregiudizio per il figlio, anche solo potenziale: differenza non da poco); i protocolli (pressoché tutti) elencano spese straordinarie (non necessariamente comportanti decisioni di principale interesse) obbligatoriamente da concordare, ma … i protocolli sono solo indicativi e non vincolanti; la legge, comunque, darebbe diritto all’altro genitore di partecipare alle decisioni principali, ma… il giudice può anche ignorare la norma. Equità a parte, la certezza del diritto sembra traballare.

E proseguendo nel tempo si scopre dell’altro, con particolare riguardo al diritto al recupero di quanto anticipato. Ad es., Cass. 2127/2016, confermando Cass. 16175/2015, recita “… secondo la giurisprudenza di legittimità non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figlianche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso”. Una decisione che esplicita l’intercambiabilità sotto rilevanti profili tra affidamento esclusivo e collocazione prevalente e l’irrilevanza perfino della preventiva informazione nonché del grado di importanza delle decisioni.

In effetti, le successive pronunce della Cassazione a volte si sono allineate con quanto appena rammentato e altre hanno sorvolato sul grado di interesse delle iniziative. Ad es, secondo Cass. 15240/2018 (massima): “In tema di rimborso delle spese straordinarie sostenute nell’interesse dei figli minori, il genitore collocatario non è tenuto a concordare preventivamente e ad informare l’altro genitore di tutte le scelte dalle quali derivino tali spese, poiché l’art. 155, comma 3, c.c.(oggi art. 337-ter c.c.) consente a ciascuno dei coniugi di intervenire nelle determinazioni concernenti i figli soltanto in relazione “alle decisioni di maggiore interesse”, mentre, al di fuori di tali casi, il genitore non collocatario è tenuto al rimborso delle spese straordinarie, salvo che non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.”. Una decisione che conferma la discriminazione pur escludendo le scelte di maggior interesse.

Nello stesso senso si muove la recentissima Cass. 5059/2021, che tuttavia aggiunge un ulteriore motivo di perplessità, già accennato da Cass. 9376/2011 affermando che “il provvedimento giurisdizionale” può “determinare diversamente, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli (crf. Cass. 2182 del 2009, 9376 del 2011).”. Una statuizione non condivisibile ove si rammenti che il comma II dell’articolo 337 ter c.c. sul punto si esprime diversamente: “Il giudice «Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori … fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.»” Naturalmente si può sempre sostenere capziosamente che il non collocatario è comunque “uno dei due genitori”, per cui il giudice potrebbe stabilire regimi diversi per ciascuno, ma si andrebbe in evidente contraddizione con la più elementare interpretazione sistematica oltre che, probabilmente, con rilevanti profili costituzionali.

Il mantenimento di prerogative del genitore già collocatario quando un figlio diventa maggiorenne

Alle incertezze appena viste sulle spese straordinarie – anche se costantemente caratterizzate da difformità rispetto alle norme – corrispondono per il mantenimento del figlio maggiorenne altrettante aporie, e nello stesso senso. Rinunciando a discutere l’infelice formulazione dell’articolo 337 septies c.c., appare sicuramente discriminatoria la lettura prevalentemente data dalla Suprema Corte in merito alla posizione, ai diritti e doveri di ciascuno dei genitori nei confronti di un figlio che a partire da un affidamento condiviso – da ipotizzare secondo legge come  equilibrato e bilanciato – non è più in affidamento perché divenuto maggiorenne e quindi, avendo piena capacità di agire, può spostare liberamente la propria presenza da un genitore all’altro. A dispetto di ciò giurisprudenza costante sia di merito che di legittimità ha inteso attribuire la condizione di convivenza ad uno solo dei due, al quale è stato attribuito il diritto di esigere dall’altro genitore, iure proprio e non ex capite filiorum, il versamento nelle proprie mani e non in quelle del figlio il contributo al di lui mantenimento, lasciando all’obbligato l’onere della prova della cessazione dell’obbligo per raggiunta autosufficienza economica del figlio.   

Sorvolando ancora una volta sulla saggezza di un regime del genere, non si può fare a meno di osservare che l’obbligo di contribuire al mantenimento grava su entrambi i genitori, per cui un’applicazione fedele al dettato normativo nel momento avrebbe dovuto prevedere che entrambi i genitori  dessero contributo al mantenimento del figlio divenuto maggiorenne – in misura proporzionale proprie risorse – il quale avrebbe avuto il dovere di partecipare agli oneri domestici nella misura in cui convivente in parte con l’uno e con l’altro, secondo le previsioni dell’articolo 315 bis c.c.

Un regime discutibile, dunque, quello messo in atto per lunghi anni, al quale tuttavia  aveva posto fine un intervento della Suprema Corte (Cass. 17.813 del 2020), ridisegnando completamente diritti e doveri (tra cui si segnala l’inversione dell’onere della prova) e, in particolare, cancellando le differenze fra genitore ex collocatario ed ex non collocatario. Peraltro, trascorsi pochi mesi di oscillanti pronunce è intervenuta nuovamente la Cassazione (Ordinanza n. 4219 del 2021) affermando: “ … va ribadito il seguente principio di diritto: “l’obbligo dei genitori di mantenere i figli non cessa automaticamente quando gli stessi raggiungono la maggiore età, ma può perdurare, secondo le circostanze da valutarsi caso per caso, sulla base di opportune istruttoria, sino a quando essi non abbiano raggiunto una condizione di indipendenza economica, ed il coniuge è legittimato ad ottenere iure proprio dall’altro coniuge, separato o divorziato, un contributo al mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente, fino a che non sia in grado di procurarsi autonomi ed adeguati mezzi di sostentamento, fatto da provarsi dal soggetto obbligato, che deduca o domandi la cessazione del diritto del figlio alla prestazione di mantenimento” (in termini, Cass. 5271/1982; Cass. 475/1990; Cass. 12.212/1990; Cass. 4188/2006; Cass.25.300/2013).”. Una lettura che lascia sconcertati, sia per il riferimento ai “coniugi”anziché ai genitori, evidentemente dimenticando il D.lgs. 154 del 2013, sia perché restaura integralmente la precedente giurisprudenza senza minimamente discutere l’intervento del 2020, ma invocando conferme decisamente risalenti.

Conclusioni

I vari esempi sopra riportati documentano un atteggiamento costante della Suprema Corte che sembra difficile negare. Appare anzitutto evidente che le numerose aporie segnalate discendono sostanzialmente da una medesima causa: la scissione artificiosa, diametralmente opposta all’intenzione del legislatore, delle figure genitoriali, che la ratio legis vorrebbe di pari dignità giuridica e intercambiabili, mentre l’applicazione attribuisce loro caratteri, responsabilità e potenzialità radicalmente differenti. Sarebbe fuori luogo in questa sede insistere sui motivi di questa presa di posizione della Suprema Corte. Brevemente, si può ipotizzare anzitutto che esista un effetto di trascinamento della prassi applicata in precedenza per decenni. Ma forse non è da trascurare una ipotesi più sottile, che invoca una propensione della magistratura di legittimità verso la tutela del potere discrezionale del giudice, messo in serio dubbio dalle norme garantiste dell’autentico affidamento condiviso che favoriscono la certezza dei diritti. Anche se è pur vero che la funzione nomofilattica della Cassazione non ha valore cogente, ma solo persuasivo, è innegabile che gli esempi da essa forniti possono essersi riprodotti nella larga maggioranza delle corti di merito, inducendo il proliferare di protocolli e prestampati, tutti allineati con il modello sostanzialmente monogenitoriale. E in questo modo la funzione della Suprema Corte da nomofilattica diventa sostanzialmente nomopoietica. Probabilmente un modo efficace per uscire da questa antica dialettica conservando il meglio dei due modelli potrebbe consistere nella ferma tutela dei postulati (un genitore incolpevole deve essere certo di mantenere la pienezza del suo ruolo, tutelato in ogni aspetto concreto nel quale si esplicano le sue funzioni), rimettendo flessibilmente al giudice l’adattamento al caso particolare, tuttavia limitatamente ai soli dettagli, la definizione dei rispettivi compiti di cura, la ripartizione dei capitoli di spesa ecc.  

Concludendo, pare opportuno sottolineare l’impossibilità pratica di dare applicazione sistematica, logica e coerente ai ruoli e alle figure di nuova introduzione, benché promosse e vigorosamente caldeggiate a tutti i livelli. C’è da chiedersi, infatti, anzitutto ovviamente come possa definirsi un genitore collocatario quando la frequentazione è paritetica, situazione sicuramente recessiva, ma tutt’altro che inesistente, soprattutto nelle separazioni consensuali. E tuttavia, accanto a queste ipotesi sicuramente banali se ne possono ipotizzare altre, più sottili e meno frequenti ma anche più interessanti sotto il profilo speculativo. Si pensi, ad esempio, ad una coppia di genitori che per motivi professionali (medici, infermieri, agenti di pubblica sicurezza o di custodia, assistenti di volo eccetera) abbiano dei vincoli di orario che li costringono a turnazioni anche notturne. Ammettiamo, di conseguenza, che il figlio pernotti nell’arco del mese più frequentemente presso il genitore che di giorno vede di meno. Chi dovrebbe essere il “genitore collocatario”? Tipicamente, si considera che la casa sia il luogo dove si dorme, quindi c’è da aspettarsi che il provvedimento del giudice dei due genitori privilegi il primo qui indicato. Cioè quello che in concreto di lui si occupa di meno… Avrebbe senso? E neppure lo avrebbe farsi guidare per questa bizzarra identificazione dalla residenza anagrafica, frequentemente scelta per motivi di mera opportunità pratica, svincolata dall’effettivo luogo di prevalente permanenza, e scelta, ad esempio, solo in funzione della zonizzazione scolastica…

Rammentando al contempo che gli squilibri generano conflitti, ossia incrementano il contenzioso, e che giustamente le madri – di regola genitori prevalenti – rivendicano pari opportunità nel lavoro e nella vita privata, la conclusione di questa dettagliata analisi è che sembra non esserci alcun motivo né logico, né pratico, né soprattutto giuridico per insistere in una discriminazione che ai figli fa solo danno e che, dettaglio non trascurabile, non è fedele alle prescrizioni di legge.