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La riforma della Giustizia penale frutto di compromessi

E’ entrata in vigore la riforma della Giustizia penale, frutto di un compromesso politico tra le forze che governano il Paese, che prevede una serie di interventi, a dire dei rappresentanti del Governo, finalizzati principalmente a snellire il processo penale con l’obiettivo di ridurre del 25% i tempi del giudizio.
Una riforma che contiene alcune disposizioni che entrano in vigore immediatamente seppur con operatività differita ed altre oggetto di decreti legislativi, intorno alla quale da subito si è aperto un acceso ed ampio dibattito con particolare riguardo al nuovo sistema della improcedibilità.
Nello specifico, nel tentativo, a dire il vero mal riuscito, di superare la aberrazione della riforma Bonafede che prevedeva che un cittadino potesse restare sotto la spada di Damocle del processo penale sine die, il nuovo sistema ha introdotto il controverso meccanismo della improcedibilità per cui il processo si estingue alla scadenza di determinati termini di fase: due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, prolungabili rispettivamente di un anno e di sei mesi per fascicoli di particolare complessità. Il giudice, inoltre, può concedere ulteriori proroghe, per le ragioni e per la durata indicate, quando si procede per particolari categorie di reato come i reati di mafia, violenze sessuali, e così via.


Questo meccanismo che rappresenta forse il punto più basso, certamente il più scabroso, del “compromesso politico” è stato, a giusta ragione secondo il mio punto di vista, contestato ed avversato dai più autorevoli studiosi del processo penale, (Paolo Ferrua, Giorgio Spangher ed altri) i quali hanno evidenziato anche dubbi di incostituzionalità in relazione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e della separazione dei poteri.
Gli accademici, in un documento a loro firma, hanno sottolineato come il potere concesso ai giudici di poter disporre proroghe dei termini fissati a pena di improcedibilità nei processi di mafia, terrorismo, violenza sessuale ecc., finisca inevitabilmente per «renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale», consegnando «alla giurisdizione scelte di politica criminale, in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri».
Questo meccanismo della c.d. prescrizione processuale, come si legge sempre in quel documento, «contiene un implicito invito a chiudere innanzitutto i procedimenti relativi a reati meno gravi, ponendosi così in antinomia con i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, ispirati al perseguimento di reati gravi con termini di prescrizione lunghi o addirittura imprescrittibili».


Ci si potrebbe trovare inoltre, come evidenziato anche dal prof. Spangher, dinanzi al paradosso che qualora il pubblico ministero dovesse impugnare la sentenza di assoluzione in primo grado e dovesse sopraggiungere l’improcedibilità per decorso dei tempi processuali, l’assoluzione si convertirebbe in improcedibilità, comportando questo una sostanziale reformatio in peius per decorso del tempo contraria ai principi del nostro ordinamento.


Non solo, ma il meccanismo dell’improcedibilità, oltre a non rispondere al principio della ragionevole durata del processo, come ha anche affermato il prof. Ferrua ed altri, potrebbe portare all’assurda conseguenza che si “prescriva” il processo e non il reato.


Le criticità della c.d. riforma Cartabia non si fermano al tema della improcedibilità se solo, per esempio, si volge lo sguardo a quanto previsto nel giudizio dinanzi alla Corte d’Appello o dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione laddove si è, in concreto, decretata la “fine” del principio di oralità.


Infatti, come spesso è accaduto nella storia del nostro Paese, con la riforma si è data una veste di stabilità a norme emergenziali introdotte ed applicate nel corso della pandemia COVID-19, prevedendo la trattazione cartolare dei processi penali in Appello e in Cassazione salvo esplicita richiesta di trattazione orale avanzata dall’imputato o dal suo difensore

Questo principio, più che finalizzato ad accelerare i tempi del processo, sembra essere figlio – il riferimento è chiaramente provocatorio – di quella cultura che sottendeva il procedimento inquisitorio di antica memoria e che ancora si respira nelle aule di giustizia, che, come affermava Bonifacio VIII, doveva svolgersi sine strepitu advocatorum et forma iudicii, cioè senza vociare d’avvocati (avvertiti ancor oggi, come fastidiose presenze che rallentano il corretto e celere procedere della giustizia) né formalismi.

Ed ancora, si pensi al rischio insito nella previsione delle cause di inammissibiltà dei motivi d’appello che potrebbe finire, così come denunciato dall’Unione delle Camere Penali, per trasfigurare l’appello “in giudizio sull’atto e non sul fatto”; alle procedure semplificate per la declaratoria di inammissibilità nel giudizio di Cassazione (in uno scenario che già vede il patologico giudizio di inammissibilità colpire oltre il 70% dei ricorsi proposti); alla modifica della regola di giudizio dell’udienza preliminare nel prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna, che è come dire che chi viene rinviato a giudizio vi arriva con un “pregiudizio di colpevolezza” con buona pace di uno dei principi cardine del nostro ordinamento penale, la “presunzione di non colpevolezza” fino alla condanna definitiva. E di tanto ancora si potrebbe discutere.

Quel che è evidente è che il testo della c.d. riforma, pur prevedendo alcuni “timidi” interventi che potremmo definire tutto sommato positivi, come per esempio il controllo giurisdizionale sui tempi di durata delle indagini, è il risultato di un compromesso al ribasso delle forze di governo che ha portato all’approvazione finale di un testo molto differente da quello varato dalla commissione di esperti presieduta dal Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giogio Lattanzi.


Certo è che questa c.d. riforma non presenta i connotati tipici di una riforma sistemica e strutturale, in quanto non affronta tanti temi che avrebbero meritato degli interventi più ampi ed articolati come in materia di misure di prevenzione piuttosto che di misure cautelari, e, soprattutto, non sembra in alcun modo in grado di raggiungere l’obbiettivo che il Governo si è prefissato con la sua approvazione, cioè ridurre i tempi del processo.

Quel che lascia inoltre perplessi in questa circostanza è il metodo che il Governo ha inteso adottare per portare in porto questa riforma. Difatti, pur potendo contare, almeno sulla carta, su di un’ampia maggioranza, ha ritenuto di porre la fiducia sul testo così di fatto svuotando il Parlamento delle proprie prerogative tipiche di un sistema democratico.


E’ indubbio che la nostra Costituzione preveda il ricorso da parte del Governo a tale “procedura” in casi straordinari di necessità e d’urgenza, ma quello della riforma penale che finisce con l’incidere sui diritti fondamentali dei cittadini, rappresenta un intervento che non poteva e non doveva essere
sottratto al dibattito e al confronto tipico di una democrazia.


Molto ci sarà ancora da dire su questa riforma e soprattutto tante saranno le problematiche e le questioni che dovranno essere affrontate nella concreta applicazione delle norme ma resta il fatto che questa riforma per alcuni rappresenta una flebile luce in fondo ad una strada buia ed irta di
ostacoli, per altri, forse a ragione, l’ennesima occasione persa.


Avv. Fabio Di Bello
già componente Giunta Nazionale UCPI
Past President Camera Penale di Brindisi