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cronaca

L’inesistenza di Conte, il premier “gassoso” sparito da ogni radar

Avendo preso come disegno della Provvidenza e manna dal cielo i silenzi, il garbo, il vapor acqueo dell’ultimo premier espresso dal Pd, conte Paolo Gentiloni Silverj, dovremmo ora accogliere con ditirambi di giubilo il compimento di quel salutare progetto catartico. 

E senza cachinni salutare la stabilmente vacua figura del suo successore a Palazzo Chigi, che di Conte ha solo il cognome ma di nome almeno fa Giuseppe, come il più noto dei falegnami, simbolo dell’homo faber. Tale non è, però, il ruolo assegnato al nostro caro premier, che di professione fa l’avvocato (attualmente «del popolo») e che, della nuova stagione politica, rappresenta la punta più avanzata. Perché se Di Maio dà per scontato il superamento degli steccati e delle ideologie, se Salvini predica le virtù del buonsenso della massaia incazzata del Nord (ora anche del Sud), Giuseppe Conte incarna alla perfezione l’indimenticabile astrazione che Italo Calvino condensò in Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildinverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez. «L’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che gli sta intorno, ma solo astrattamente funziona». Quel cavaliere che a Carlomagno curioso di disvelargli il volto oppose la più sbalorditiva delle motivazioni: «Perché io non sono, Sire», spiegando indi il segreto del proprio vitalismo: «Con la forza di volontà e la fede nella nostra santa causa!».

Così il nostro Agilulfo, superamento materiale della figura descritta dalla Costituzione all’articolo 95, nei primi torpori dell’estate, s’è distinto per un caffè al Circolo canottieri Roma con uno dei suoi miti giovanili, Antonello Venditti, nonché per la conferenza stampa di presentazione del Decreto Dignità retta con altrettanta dignità di funzione. E declamata, altresì, con puntuale coniugazione del pluralia maiestatis per quanto fossero smaccatamente inopportuni. «Abbiamo adottato… abbiamo individuato… ci piace chiamare… prestiamo costante attenzione». Fantastica interpretazione di un premier che ha approfittato di una domanda sui rimbrotti di Trump per calare l’ asso dalla manica: «Colgo l’occasione per mandargli un saluto». Tanto per rimarcare che il 30 luglio sarà lì, alla Casa Bianca, indiscutibile successo del suo primo vagito internazionale. Prova d’esistenza in vita, per uno che risponde sempre con onesta consapevolezza del proprio ruolo di «non sapere, non ho dichiarazioni, non fatemi complimenti non ho ancora fatto nulla». Sapere di non sapere, di non poter dire, riconoscere serenamente di dover aspettare ogni volta il responso che proviene da quella «realtà di lavoro del nostro gruppo che… sa, se potesse parteciparvi anche lei, non troverebbe tracce di scontri, diverbi, logomachie». Tesi, peraltro, confermata da Salvini quando s’è dichiarato «strafelice» del metodo di governo con M5S, sottolineando come non sia il «suo» esecutivo, bensì «orgogliosamente il governo Conte». Astrazione vivente che l’altro giorno il senatore renziano-pentito Tommaso Cerno ha voluto consegnare al catalogo delle ironie facili, presentando un’interrogazione nella quale chiede a Di Maio e Salvini se «Conte stia bene», considerato che «non c’è, non parla e non si vede». E se ha voluto fare il premier «per metterlo nel curriculum». Cattiveria gratuita, per un «Non essere» che passerà alla storia.

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