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Spese di lite: il giudice non può discostarsi dai valori medi senza motivazione

Fonte: ecnews.it

In tema di spese processuali, la ratio legis è quella di non gravare la parte che è stata costretta a rivolgersi al giudice per tutelare un proprio diritto, ma di chiederne il ristoro a quella che tale diritto ha leso, in ossequio alla tutela del diritto di difesa di cui all’articolo 24 Cost.

Infatti, l’articolo 15, comma 1, D.Lgs. 546/1992 sancisce il principio di soccombenza, prevedendo che le spese del giudizio liquidate con la sentenza debbano essere rimborsate dalla parte soccombente, intendendosi tale quella la cui domanda giudiziale sia stata respinta, anche se per motivi processuali.

A tal fine, il soccombente deve essere individuato facendo ricorso al principio di causalità, per cui obbligata a rimborsare le spese processuali è la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi (cfr., Cassazione ordinanza n. 930/2015).

È d’uopo precisare altresì che le spese del giudizio, ex articolo 15, comma 2-ter, D.Lgs. 546/1992, devono comprendere i costi sostenuti dalla parte relativamente alle attività processuali (ad esempio, il contributo unificato, i diritti di notifica e i diritti di copia); gli onorari e i diritti del difensore; i c.d. accessori (ad esempio, le spese generali, il rimborso delle spese di trasferta e il contributo per la cassa forense o previdenziale); l’imposta sul valore aggiunto (non è pacifico che vada rimborsata anche se detraibile e detratta dalla parte, in quanto è un costo che non resta a carico della parte); le consulenze tecniche.

Con specifico riferimento alla determinazione dei compensi (compito spettante al giudice, così come sottolineato da Cassazione, sentenza n. 255/2006), l’articolo 15, comma 2-quinquies, D.Lgs. 546/1992 stabilisce in via generale che i compensi dei difensori professionisti devono essere liquidati sulla base delle tariffe professionali di categoria (ad esempio, per gli avvocati bisogna fare riferimento al D.M. 55/2014, così come aggiornato dal D.M. 37/2018).

Si evidenzia innanzitutto che, al fine di individuare correttamente lo scaglione di riferimento, va considerato l’intero importo dell’atto impugnato e non il valore della lite ai fini dell’assistenza tecnica di cui all’articolo 12 D.Lgs. 546/1992, secondo cui questo coincide con l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato.

Sul punto, infatti, la Corte di Cassazione ha affermato che il valore della lite, ai fini della liquidazione delle competenze spettanti al professionista, non è certamente quello previsto dall’articolo 12, comma 5, D.Lgs. 546/1992, ma va computato in base all’importo delle imposte, tasse, contributi, pene pecuniarie, soprattasse, multe, penali, interessi che sarebbero dovuti sulla base dell’atto impugnato o in contestazione (cfr., Cassazione sentenza n. 3355/2002).

Quanto, poi, alla quantificazione delle spese processuali, facendo riferimento ad una vicenda in cui un avvocato aveva lamentato una liquidazione troppo bassa e la mancanza di un’argomentazione al riguardo, la Corte di Cassazione, con ordinanza 23 aprile 2020, n. 8146, ha affermato tout court che il giudice non può discostarsi in maniera apprezzabile dai valori medi previsti dalle tariffe professionali di categoria, senza una valida e specifica ragione che motivi la sua scelta.

In effetti, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. 55/2014non sussistendo più il vincolo legale dell’inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale (cfr., Cassazione, ordinanza n. 30286/2017).

Detto in altri termini, i parametri, indicati dall’articolo 4, comma 1, D.M. 55/2014, operano come fattori di concretizzazione della liquidazione del compenso professionale, che muove da valori medi, su cui poter effettuare, poi, aumenti e diminuzioni secondo determinate percentuali (ad esempio, aumento fino all’80 per cento, diminuzione fino al 50 per cento).

Sicché, così come concluso dalla Suprema Corte nella pronuncia indicata, pur essendo stato abolito il vincolo inderogabile dei minimi tariffari e introdotto un sistema fondato su valori medi, che sulla base di determinati parametri possono essere aumentati o diminuiti, il giudice è tenuto ad indicare i parametri che lo hanno guidato nella liquidazione giudiziale, in caso di scostamento apprezzabile da detti valori medi.

Da ultimo, si rileva che non sarà, in ogni caso, ammissibile che il giudice, nella quantificazione delle spese processuali, superi il limite di cui all’articolo 2233, comma 2, cod. civ., che vieta di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (cfr., Cassazione ordinanza n. 20790/2017).