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cose di giustizia

Stupefacenti: per le perquisizioni autorizzate per telefono occorre la convalida del p.m.

Fonte: quotidianogiuridico.it

La Corte costituzionale, con sentenza del 26 novembre 2020 n. 252, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 103 d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate.Corte costituzionale, sentenza 26 novembre 2020, n. 252

Il caso

Con sei ordinanze di tenore per larga parte analogo, il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p., nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente – non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori, compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge, ovvero non convalidati, comunque sia, dal pubblico ministero con provvedimento motivato.

In alcune delle ordinanze, il rimettente lamenta in modo specifico che l’inutilizzabilità non colpisca anche le perquisizioni e le ispezioni operate dalla polizia giudiziaria sulla base di elementi non utilizzabili, quali le fonti confidenziali, o in assenza della flagranza di reato; ovvero autorizzate verbalmente dal pubblico ministero senza che ne risultino le ragioni; ovvero ancora effettuate ai sensi dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, senza aver chiesto – come ivi prescritto – l’autorizzazione del pubblico ministero e senza che consti l’impossibilità di farlo; ovvero, ancora, che non colpisca anche la deposizione testimoniale sulle attività prese in considerazione.

Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe anzitutto gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali l’autorità di pubblica sicurezza può procedere a ispezioni personali e a perquisizioni, personali e domiciliari, solo in casi eccezionali di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, mediante atti soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in mancanza della quale essi restano privi di ogni efficacia, il che implica necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio.

Risulterebbe, altresì, violato l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: sia per l’ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le quali la sanzione dell’inutilizzabilità è espressamente prevista dalla legge o riconosciuta dalla giurisprudenza, quali quelle delle intercettazioni e dell’acquisizione di tabulati del traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in difetto di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria; sia per contrasto con il «principio di necessaria razionalità dell’ordinamento, venendosi a teorizzare un sistema che considera inefficaci ab origine le leggi incostituzionali, ma efficacissimi, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

Sarebbe vulnerato anche l’art. 2 Cost., non risultando predisposte effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo; come pure gli artt. 3 e 97, comma 2, Cost., venendo resa prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati, posti al centro dell’ordinamento costituzionale.

Il rimettente deduce, ancora, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., essendo generalmente riconosciuta l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (quali gli scritti anonimi e le fonti confidenziali), mentre, nell’ipotesi in esame, si considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in diretta violazione di un divieto di legge (anche costituzionale) e caratterizzate anch’esse da una «ridotta verificabilità», in particolare quanto agli elementi che hanno indotto la polizia giudiziaria a procedere alla perquisizione, con conseguente compromissione anche del diritto di difesa dell’imputato.

Viene prospettata, infine, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, giacché verrebbero a mancare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

Una delle ordinanze, inoltre, solleva, inoltre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata: in tal modo violando – secondo il rimettente – gli artt. 1314 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, posto che una simile autorizzazione non varrebbe ad assicurare un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione.

La decisione della Corte

La Corte, in primo luogo, ha dichiarato inammissibili le censure aventi ad oggetto l’art. 191 c.p.p., richiamando le argomentazioni della sentenza n. 219 del 2019, la quale aveva scrutinato questioni sostanzialmente sovrapponibili alle odierne, sollevate dal medesimo giudice.

In quella decisione, infatti, la Corte osservò come il petitum, volto a rendere automaticamente “contaminata” l’utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge, si traduceva nella richiesta di una pronuncia fortemente manipolativa, che “finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di ‘politica processuale’ che la stessa Costituzione riserva al legislatore”.

La Corte, invece, ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 d.P.R. n. 309 del 1990 in riferimento agli artt. 13 e 14 Cost.

La Corte ha preso le mosse dalla norma censurata, “con il quale il legislatore ha potenziato l’operatività della polizia giudiziaria onde realizzare una più efficace attività tanto di prevenzione quanto di repressione dei traffici illeciti di stupefacenti, prevedendo una ricerca sommaria, suscettibile di evolvere, tuttavia, in accertamenti più penetranti, sino, se necessario, alla perquisizione”.

In particolare, dopo aver delineato, al comma 1, una facoltà di visita, ispezione e controllo negli spazi doganali in capo alla Guardia di finanza, al fine di assicurare l’osservanza delle norme del medesimo t.u. stupefacenti, l’art. 103 d.P.R. n. 309 del 1990 prevede, al comma 2, che, nel corso di operazioni per la prevenzione e la repressione del traffico illecito di droga, gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono procedere, “in ogni luogo”, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, “quando hanno fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti o psicotrope”. Delle operazioni compiute deve essere redatto verbale mediante appositi moduli, da trasmettere entro quarantotto ore alla procura della Repubblica, per la convalida nelle quarantotto ore successive.

Il comma 3 stabilisce, inoltre, che gli ufficiali di polizia giudiziaria, “quando ricorrono motivi di particolare necessità e urgenza che non consentono di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore”. In assenza di specificazioni limitative, la perquisizione può essere tanto personale, quanto locale o domiciliare, ovviamente, stante il collegamento tra i commi 2 e 3, purché sia in corso un’operazione antidroga e che sussista un fondato motivo per ritenere che la perquisizione possa portare al reperimento di sostanze stupefacenti.

Ad avviso della Corte, secondo la disposizione censurata le perquisizioni da essa previste sono soggette a convalida solo quando non sia stato possibile “richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente”, la quale, a sua volta, tiene il luogo del decreto motivato con cui, ai sensi dell’art. 247, comma 2, c.p.p., le perquisizioni debbono essere ordinariamente disposte dall’autorità giudiziaria. Ratio della norma è di consentire “alla polizia giudiziaria di intervenire prontamente, sulla base anche di una semplice interlocuzione orale con il pubblico ministero”.

Orbene, la previsione normativa censurata è stata ritenuta incompatibile con il disposto degli artt. 13, comma 2, e 14, comma 2, Cost., secondo cui le perquisizioni personali – al pari delle ispezioni personali e di ogni altra restrizione della libertà personale – nonché le perquisizioni – oltre che alle ispezioni e ai sequestri – eseguiti nel domicilio possono essere disposte solo «per atto motivato» dell’autorità giudiziaria.

La Corte ha sottolineato che una mera autorizzazione telefonica – che, di per sé, non lascia alcuna traccia accessibile delle sue ragioni, né per l’interessato né per il giudice – non soddisfa l’onere motivazionale, posto a presidio per l’interessato: “se i motivi per i quali è stata consentita la perquisizione restano nel chiuso di un colloquio telefonico tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, la tutela prefigurata dalle norme costituzionali resta inevitabilmente vanificata”.

La Corte ha ritenuto ininfluente la circostanza – già posta in evidenza da un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – che la perquisizione prevista dall’art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti si differenzi da quella ordinaria regolata dal codice di rito, potendo avere una finalità non solo repressiva, ma anche preventiva: “lo scopo – preventivo o repressivo – della perquisizione costituisce, infatti, una variabile indifferente ai fini dell’operatività delle garanzie stabilite dagli artt. 13 e 14 Cost. a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo”.

Al fine di porre rimedio al censurato vulnus, la Corte ha ritenuto che la soluzione con il più immediato aggancio nella disciplina vigente “è quella di richiedere che anche la perquisizione autorizzata telefonicamente debba essere convalidata, entro il doppio termine delle quarantotto ore”, ovviamente con provvedimento motivato, come avviene per la perquisizione “ordinaria”.

Di qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, “nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate”.

La Corte, infine, ha sottolineato che “anche in questo caso rimane ferma la facoltà del legislatore di introdurre, nella sua discrezionalità, altra, e in ipotesi più congrua, disciplina della fattispecie, purché rispettosa dei principi costituzionali”.

Esito del ricorso:

dichiarazione di illegittimità parziale; dichiarazione di inammissibilità

Riferimenti normativi:

Art. 103, d.P.R. n. 309/1990

Art. 191 c.p.p.