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Lidia Poët: l’irriducibile tenacia della prima Avvocata d’Italia

Fonte: vanillamagazine.it

Prima di lei, in Italia, solo Maria Pellegrina Amoretti si era laureata in giurisprudenza, nel 1777, dopo molti impedimenti. Quelli però non erano certo anni nei quali a una donna fosse consentito di esercitare la professione di avvocato. D’altronde ci avevano pensato i Romani a proibire alle donne di postulare pro aliis, dopo che una matrona, Ortensia, aveva osato sfidare (con successo) i triumviri nel Foro, nel lontanissimo 42 a.C.

Maria Pellegrina Amoretti

Dopo Ortensia, per sperare di veder discutere una causa in tribunale da una donna, al pari di un uomo, bisognerà aspettare il 1883: il 9 agosto di quell’anno Lidia Poët si iscrive all’Ordine degli Avvocati di Torino.

Il percorso di Lidia è stato molto lineare seppure non consueto per una ragazza dell’epoca: la famiglia benestante non ostacola la sua volontà di studiare, anzi. Dal paese dove ha trascorso l’infanzia, Traverse di Perrero, si trasferisce a casa di uno dei fratelli maggiori, a Pinerolo, per poter diventare maestra. Dopo un po’ di tempo passato in Svizzera per studiare inglese e tedesco, torna a Pinerolo dal fratello Enrico, già avvocato, e si iscrive all’Università di Torino, alla facoltà di Legge.

Ha tutte le carte in regola Lidia, visto che si è laureata in giurisprudenza nel 1881, all’Università di Torino (la stessa che un secolo prima aveva rifiutato l’iscrizione ad Amoretti, perché donna), e poi ha svolto l’obbligatorio praticantato di due anni nel prestigioso studio legale dell’avvocato Cesare Bertea.

Lidia Poët

Dunque quel 9 agosto 1883 potrebbe essere una data storica: per la prima volta, non senza polemiche, una donna è iscritta all’Ordine e può quindi esercitare l’avvocatura.

Potrebbe, ma in realtà non lo è

Il procuratore generale del re, a Torino, si oppone fermamente e presenta una denuncia alla Corte d’Appello, che l’11 novembre gli dà ragione: una donna non può essere iscritta all’Ordine degli Avvocati. Lidia Poët non ci sta e fa ricorso alla Corte di Cassazione, che però conferma quanto stabilito in appello:

“(…) Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra (…).