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Bombacigno, artigiano della parola nel suo romanzo d’esordio

Fonte: senzacolonnenews.it

Lima, forbici, cesoie, scalpello, mannaia: sono questi gli strumenti di lavoro del 50enne Diego Altisarte, il protagonista de L’aggiustatore di libri (“Les Flaneurs Edizioni”), la nuova brillante opera dello scrittore brindisino Michele Bombacigno, già assistente giudiziario presso il Tribunale di Brindisi, qui al suo romanzo d’esordio dopo aver pubblicato racconti.
No, Diego Altisarte non è un fabbro, né uno scultore. È “un artigiano della parola”, un uomo di umili origini e privo di istruzione universitaria che ad un certo punto della sua vita, in seguito ad un sogno che improvvisamente ristabilisce le priorità di un’esistenza nella quale non si riconosce più, molla il posto fisso da statale e comincia a fare per mestiere ciò per un certo tempo ha fatto soltanto per passione: l’editor, il correttore di bozze, il ghostwriter freelance, prevalentemente per piccole case editrici e per scrittori che si autopubblicano.
“Perché non dare una mano anche a chi non è stato baciato dalla sorte ricevendo il dono del talento, ma ha comunque tanta passione per la scrittura? Forse che debbano scrivere e pubblicare solo i Tabucchi e i Carver, i Camilleri e i Márquez?”, si chiede Diego, uno che sin da bambino ha sviluppato la “patologia” della lettura e che da tutta la vita si sente ripetere “tu che sai scrivere…” da famigliari, amici e colleghi di lavoro in cerca di parole che non arrivano. E poco importa se il suo lavoro non è apprezzato o valorizzato a sufficienza: Diego è un uomo che si accontenta di vivere della luce riflessa degli autori che “aggiusta”, perché in quel riflesso rintraccia il senso di una vita che soltanto nell’amore per le parole ben scritte si compie pienamente.
In questo libro estremamente curato nella forma e con uno sviluppo narrativo coerente e intrigante (due qualità più uniche che rare, qualche volta assenti persino in grossi nomi pubblicati da case editrici prestigiose), colpiscono la trama ben strutturata, i personaggi (specialmente quelli femminili) ben sfaccettati e l’impalpabile leggerezza di fondo che accompagna il protagonista nel suo viaggio personale e letterario.
Certamente, dal punto di vista stilistico, non si può negare che sia un romanzo. Eppure, l’impressione iniziale, che trova conferma mano a mano che si va avanti nella lettura, è che L’aggiustatore di libri sia più che altro un omaggio all’arte della bella scrittura, come se la storia rappresentasse un pretesto e fosse (soltanto) funzionale al vero scopo del libro: l’elogio della scrittura e del suo potere terapeutico, forse persino salvifico. Ogni parola, nel libro di Bombacigno, è un atto d’amore nei confronti della letteratura. A cominciare dal cognome del suo Diego (Altisarte, che è l’anagramma di Alatriste, il protagonista della saga di romanzi storici pubblicati dallo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte), per continuare con le numerose citazioni degli autori più cari a Diego e a Michele stesso, che si amalgamano al racconto approfondendone la valenza universale.
Come mai ha scelto di dedicare il suo libro “A tutti gli scrittori non famosi del mondo”?
“Perché questo libro è un omaggio a tutte le persone che scrivono semplicemente per il grandissimo piacere di scrivere, senza l’ambizione di raggiungere la fama o la ricchezza. Non esistono soltanto gli scrittori famosi, ci siamo anche noi che ogni giorno coltiviamo questa passione senza avere chissà quali pretese”.
Quando inizia la storia di scrittore di Michele Bombacigno?
“Intanto preciso che non mi sento uno scrittore, ma soltanto una persona che ha la passione per la scrittura. Ai tempi della scuola scrivevo molto, poi ho studiato Giurisprudenza e ho perso un po’ la mano. Leggevo moltissimo, ma non scrivevo. Sino a quando ho iniziato un corso di scrittura tenuto dal professor Mimmo Tardio, a cui nel libro è ispirato il personaggio del Duce: a lui devo immensa gratitudine, perché mi ha introdotto in questo mondo meraviglioso. Ho pubblicato nel 2004 il racconto lungo intitolato “La pantofola d’oro” e nel 2006 una raccolta di racconti autobiografici ispirati a quella grande metafora di vita che è il gioco del calcio. Poi, come editor e correttore di bozze, ho curato alcune antologie di scrittori brindisini in cui sono contenuti anche dei miei racconti”.
In un mondo in cui l’arte della parola è estremamente maltrattata dalla scrittura veloce sui social network, cosa significa essere “artigiano della parola”, come si definisce Diego, il protagonista del suo libro?
“Vuol dire avere il piacere della bella scrittura. Soffrire quasi fisicamente quando la nostra bellissima lingua italiana viene seviziata da errori e disattenzioni. Molti pensano che basti scrivere e non si preoccupano di curare la forma. Ma non conta soltanto la storia, è altrettanto importante riuscire a raccontarla bene. Ecco, quando riesco a mettere mano ad una storia e a sistemarla dal punto di vista della forma e dello sviluppo della trama, io provo una grande soddisfazione. Lo faccio quasi esclusivamente per hobby. Guadagno addirittura meno di Diego, ma mi diverto moltissimo. È una cosa che mi permetto di suggerire a tanti amici che si limitano a buttare parole sul foglio e non si impegnano a lavorarci su: li invito a studiare, ad approfondire, a perfezionare. Lo stesso discorso vale per i tanti libri che leggo: se non sono ben scritti, perdo interesse anche alla base c’è una buona idea. Il mio concetto di bella scrittura ha a che fare, anche e soprattutto, con la mia passione di lettore”.
Lo scrittore austriaco Peter Handke una volta ha dichiarato “Una narrazione che non passa attraverso l’io dell’autore non è letteratura ma solo un semplice prodotto”. In questo libro, dov’è “l’io” più profondo di Michele Bombacigno?
“Sono assolutamente d’accordo con Handke. C’è moltissimo di me nel protagonista del mio romanzo, anche se Diego non è laureato e non ama il suo lavoro “principale”, mentre io ho completato gli studi, laureandomi in Giurisprudenza, e ho amato moltissimo il mio lavoro di impiegato pubblico, sino all’ultimo giorno. Entrambi aspiriamo a svolgere in maniera più professionale un lavoro che facciamo per hobby, entrambi siamo poco ambiziosi e quasi del tutto incapaci di richiedere compensi adeguati al nostro impegno. Detto questo, credo sia opportuno precisare che molti personaggi sono ispirati a persone che fanno parte della mia vita, ma si tratta solo di un punto di partenza. Poi, come ogni scrittore sa bene, la storia segue i suoi percorsi indipendentemente da chi l’ha ispirata”.
Nel suo romanzo lei scrive che “i libri sono anarchici, ingovernabili, indocili e quando si mettono in testa di farsi leggere non intendono ragioni, decidono loro, punto e basta”: qual è stato il libro più anarchico nella sua storia di lettore, quello che proprio ha insistito per farsi leggere?
“Quelli che ho scoperto per caso, come è accaduto per Il capitano Alatriste di Arturo Pérez-Reverte. Da un trafiletto che lo recensiva su un quotidiano è nato il mio grande amore per questo scrittore. La stessa cosa mi è accaduta con i libri di Clara Nubile e quelli di Cosimo Argentina: hanno insistito per farsi leggere così, all’improvviso. Abbiamo l’illusione di scegliere i libri, la verità è che sono loro a scegliere noi: in questo fenomeno io ci vedo quasi una magia”.
Stiamo attraversando un momento storico durissimo. Secondo lei, da scrittore, qual è la potenzialità narrativa della pandemia?
“Francamente, credo poco in questo filone, lo trovo opportunistico. Ricordo che a marzo scorso, pochi giorni dopo l’inizio del lockdown, un editore di una certa importanza sarcasticamente ha scritto qualcosa come “forse non ci crederete, siamo in quarantena da pochi giorni e mi è già arrivato un romanzo che racconta la pandemia!”. La cosa mi ha colpito moltissimo, mi sono chiesto come fosse possibile. Dovessero capitarmi libri che affrontano questo argomento mentre ancora lo stiamo vivendo, non li leggerei. In questo momento, penso che dovrebbero scrivere i giornalisti, non i romanzieri. Credo sia necessario un certo distacco per raccontare senza banalità un evento di questa portata”.
Secondo lei, chi è il lettore ideale de L’aggiustatore di libri?
“Probabilmente il lettore ideale è lo scrittore dilettante come me, chi ha il piacere di scrivere per il gusto di farlo, senza particolari ambizioni. Forse potrebbe trarre da questo libro qualche spunto per migliorarsi, per perfezionare il proprio stile seguendo quel minimo di regole editoriali necessarie a rendere dignitosa un’opera letteraria. Non perché io mi ritenga un esempio per altri, ma solo perché la mia esperienza di artigiano della parola potrebbe essere utile a chi è lontano dal mondo editoriale e vorrebbe conoscerne i segreti”.
E se non fosse soltanto un libro per scrittori dilettanti, ma anche per lettori dilettanti?
“Perché no? È un libro molto scorrevole, quindi credo che possa incuriosire anche i lettori non incalliti come me. E poi contiene tante citazioni tratte dai libri che amo, magari qualcuno potrebbe farsi affascinare e iniziare a coltivare la passione per la lettura”.
A proposito di lettori dilettanti, tre libri che lei consiglierebbe per invitare a leggere chi non ha questa passione?
“Senz’altro Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. Tre libri molto diversi, tutti capaci di incuriosire e invogliare alla lettura”.