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cronaca

Le dichiarazioni del pentito Romano svelano i nuovi assetti. E c’è la ‘ndrangheta

Fonte: senzacolonnenews.it

Alle 4.30 del mattino la scena è surreale. C’è un chioschetto distrutto da una bomba, ci sono i vigili del fuoco al lavoro tra i rottami, i carabinieri che setacciano la zona, poi arrivano gli artificieri che rovistano tra i detriti alla ricerca di tracce di esplosivo, infine i tecnici del Comune che transennano l’area, a 50 metri dall’ingresso del vecchio ospedale Di Summa. Ma manca qualcuno.
Quando c’è un attentato, i primi ad accorrere, svegliati come in un incubo da una telefonata o dall’allarme sullo smartphone, ci sono sempre i proprietari: disperati, a volte in lacrime, spaventati, arrabbiati. Lo choc terribile di chi si trova davanti ai risparmi di una vita trasformati in un attimo in una massa informe di macerie. Il chioschetto nella piazza dell’ex ospedale, per decenni rivendita di giornali, era stato trasformato in un negozio d’alimentari in miniatura con banchi, frigorifero, bagno. Un investimento di diverse decine di migliaia di euro polverizzato con il tritolo.
Ma il proprietario non c’è, e non verrà mai.
Andrea Romano, 34 anni, è nato al quartiere Cappuccini, figlio di Gino “Ramarro”, buonanima. Il padre, noto malavitoso negli anni Ottanta, era scampato miracolosamente alla mattanza organizzata dalla Sacra corona unita all’inizio degli anni Novanta: il kalashnikov del killer che entrò in casa sua si inceppò e lui riuscì a fuggire. Venne accusato poi, ingiustamente per una volta in vita sua, di essere l’autore di una serie di attentati a Brindisi, la famosa notte delle bombe del 24 giugno 1995. Ma era stata una frangia deviata della Squadra mobile a simulare il rinvenimento della sua abitazione di un ordigno e di una mitraglietta. Andrea era in casa quella sera e aveva 9 anni.
Venticinque anni dopo era toccato a lui diventare un boss. E aveva deciso di marcare il territorio, anche dopo aver subìto una condanna all’ergastolo per l’omicidio di un povero cristo, Mino Tedesco. Così la moglie, Angela Coffa, cognome pesante nella storia della malavita brindisina negli ultimi 30 anni, ha acquistato quel chiosco per farne una rivendita del pane, nel cuore del quartiere natio. Doveva essere inaugurato a marzo 2020, ma non è mai stato aperto. Prima la pandemia, poi una decisione a lungo meditata nella cella in cui avrebbe dovuto trascorrere il resto della sua vita.
Il 18 dicembre Romano ha chiamato il procuratore aggiunto della Dda di Lecce, Guglielmo Cataldi, e si è detto pronto a collaborare con la giustizia. Poco dopo la moglie Angela è stata prelevata dalla loro abitazione in piazza Raffaello a Sant’Elia, dov’era pure lei detenuta, con l’accusa di aver retto le sorti del clan in assenza del marito, ed è stata trasferita in una località protetta. Un viaggio di notte, con la scorta degli 007 del Servizio centrale di protezione.
Meno di una settimana fa, presso l’ufficio del gip di Lecce, sono stati depositati i primi verbali con le dichiarazioni rese nel primo mese di collaborazione con la giustizia da Andrea Romano. E c’è scritto pure di quel chioschetto del pane che aveva comprato con i soldi, tanti, che continuava a incassare dai suoi ragazzi, quelli che all’esterno del carcere eseguivano alla lettera i suoi ordini, spediti fuori con i pizzini o semplicemente dati per telefono. Dalla sua cella.
Nonostante le sue dichiarazioni siano abbondantemente censurate da “omissis” perché ancora coperte da un comprensibile segreto istruttorio, i contenuti emersi sembrano poter dare una spallata durissima ai nuovi clan della criminalità organizzata brindisina che, più che essere una riproposizione della vecchia Sacra corona unita, sembra sia diventata un’appendice della ’ndrangheta, ossia la mafia calabrese dalla cui costola la “Scu” fu fondata e con la quale, sin dai tempi del boss di Manduria Vincenzo Stranieri, che faceva da filtro sui carichi di eroina tra le ‘ndrine e i clan all’epoca capeggiati da Pino Rogoli, ha intrattenuto gli affari principali.
Romano ha ammesso di essere uno dei boss più importanti della città, affiliato con il grado di “crociata”, ossia il sesto livello nella scala gerarchica della ’ndrangheta, un gradino sotto la “stella” e uno sopra il “padrino”. Nella vecchia Sacra corona la “crociata” sarebbe stata chiamata “Vangelo”, un grado che avevano ricoperto i luogotenenti storici di Rogoli: Salvatore Buccarella, Giovanni Donatiello, Ciro Bruno. Rogoli era l’unico ad avere la “Santa”, ossia appunto la “Stella”. Ma quei nomi fanno parte del passato.
L’esistenza dei gradi di Stella e Crociata nella ’Ndrangheta è stata scoperta solo recentemente perché in virtù dell’organizzazione massonica della mafia calabrese, all’interno della quale le figure più in alto si conoscono solo tra di loro, questi livelli finora erano sconosciuti. Romano ha raccontato di essere stato affiliato, quando era ancora minorenne, in un sottoscala del suo condominio al rione Cappuccini, dal boss dell’epoca, Francesco Campana. Gli fu affidato il controllo dei suoi coetanei che facevano rapine nei negozi della città. Da adulto, e dopo l’affiliazione, ha assunto un ruolo sempre più importante. Secondo quanto ha dichiarato ai magistrati, non ci sarebbe stato affare illecito che non avveniva con il suo consenso, nelle vesti di boss del clan Romano-Coffa: spaccio di droga, estorsioni, attentati. Le riunioni avvenivano nel suo appartamento.
Romano ha spiegato che ogni mese arrivano dalla Grecia, sui traghetti di linea, quaranta chili di cocaina che vengono gestiti dall’organizzazione e con i gommoni che fanno rotta a Cerano le armi. Sono questi, probabilmente, i punti di forza che i brindisini mettono sul piatto della bilancia nei rapporti con la ‘ndrangheta: un tempo l’eroina saliva dalla Calabria, oggi cocaina e armi scendono dalla Puglia.
Romano aveva in cella un telefonino, che ha poi consegnato agli inquirenti, con il quale continuava a dare ordini all’’esterno del carcere. E ha consegnato un manoscritto di 10 pagine scritte di suo pugno nel quale ricostruisce nomi, episodi, gerarchie dell’organizzazione e che ora è a disposizione della Direzione distrettuale antimafia. Fu proprio un manoscritto, alla fine degli anni Ottanta, a rivelare per la prima volta l’esistenza della Sacra corona unita, con nomi, ruoli e giuramenti: il memoriale del latianese Cosimo Capodieci, divenuto il primo e più devastante collaboratore di giustizia.
Il “pentimento” di Romano, la cui credibilità dovrà essere misurata dagli inquirenti, può rappresentare un colpo durissimo non solo per i fragili equilibri interni ai clan brindisini ma soprattutto perché proietta la criminalità organizzata locale in una dimensione diversa: non il tentativo di rimettere insieme le tessere di un mosaico devastato da arresti e pentimenti, ma la scelta di creare un legame ancora più forte con la ’ndrangheta al punto di inserirsi nelle sue gerarchie.
Così quello stesso esplosivo al plastico che ha raccontato di aver avuto a disposizione per compiere attentati ad esercizi commerciali e ad auto, potrebbe essere stato utilizzato per inviare a lui e agli altri «come lui» un segnale chiaro, solo quattro giorni dopo la diffusione dei suoi verbali e la conferma che non solo ha deciso di parlare, ma soprattutto di fare i nomi di tutti. La criminalità organizzata brindisina sembra non volersi piegare e gli inquietanti suoi legami con la ‘ndrangheta rendono questa partita ad altissimo livello di rischio.