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Colpa medica o colpa forense: quando è possibile parlare di responsabilità dell’avvocato

Fonte: altalex.com

Quando parliamo di “responsabilità medica”, parliamo di una questione tanto delicata per le vittime, quanto potenzialmente lesiva per la stragrande maggioranza dei medici, che operano con diligenza e professionalità.

Chiaro però che non si può lasciare sprovvisti di tutela sia i primi quanto i secondi. L’esercizio abusivo dello strumento della “responsabilità medica”, a garanzia di soggetti rimasti vittima di presunte colpe mediche, come sappiamo negli anni ha generato il fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, altamente dannoso per la società, gravoso per tutti noi cittadini; si calcola che ogni anno il surplus di spesa sanitaria connessa a finalità terapeutiche non necessarie (medicina difensiva commissiva) sia di vari miliardi di euro. Inoltre la medicina difensiva contribuisce a diminuire la qualità dell’assistenza sanitaria (lunghe liste di attesa, onere di accesso ai ticket ecc.).

Qual è quindi la linea di confine che divide la responsabilità del medico da quella dell’avvocato? La linea di demarcazione è data, a parere di chi scrive, innanzitutto dalla professionalità di chi “consiglia” di promuovere un’azione di giudizio contro una struttura sanitaria o contro il singolo sanitario, ma soprattutto dal grado di “specializzazione” ed “esperienza” nel settore.

Oggi giorno, dove la cupidigia e superficialità contraddistinguono negativamente, da un lato, l’operato di alcuni avvocati, e dall’altro, quello dei clienti, dove l’avarizia e la sfiducia li porta ad affidarsi al legale di famiglia piuttosto che ad esperti nel settore, la scelta di figure professionali competenti è la soluzione migliore.

Vediamo però nel dettaglio quando potrebbe configurarsi, in virtù di questa breve premessa, una sorta di responsabilità professionale del legale. A tal fine però, è necessario analizzare le specifiche peculiarità che presentano le cause di responsabilità medica. Il primo aspetto da considerare è che, trattandosi di materia tecnica, l’avvocato -esattamente come il giudice- non è in grado di stabilire da solo se i sanitari che hanno avuto in cura l’attore o il suo dante causa (qualora il paziente sia deceduto) abbiano agito con la dovuta diligenza.

Pertanto, sin dalla fase di studio della controversia, l’avvocato dovrebbe avvalersi della consulenza di un medico legale e/o di uno specialista, affidandogli una valutazione preliminare di fattibilità nel merito.

Iniziare una causa per responsabilità medica, senza il sostegno di una valida relazione medico-legale attestante profili di colpa in capo alla struttura sanitaria e ai sanitari coinvolti nella cura del danneggiato, sarebbe senza dubbio un comportamento discutibile, non diligente, anticipatorio rispetto ad una responsabilità professionale dell’avvocato che incautamente si è avventurato in un giudizio.

Per contro, ove la domanda risarcitoria venga rigettata nel merito perché il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice pervenga a conclusioni diverse da quelle raggiunte dal consulente di parte attrice e successivamente recepite nell’atto introduttivo (che, statisticamente, è il motivo più comune di rigetto), in linea di massima non potrà esservi responsabilità del difensore.

“Di massima”, però, non significa “mai”: l’avvocato, infatti, essendo il responsabile ultimo della difesa, dovrà sempre verificare, prima d’intentare causa, che le conclusioni del proprio consulente medico legale siano quantomeno coerenti sotto il profilo logico-giuridico e fondate su una disamina approfondita di tutta la documentazione medica disponibile, con ciò intendendosi non solo quella fornita dal cliente, ma anche quella di cui può ragionevolmente supporsi l’esistenza e ottenere la disponibilità attraverso l’uso della dovuta diligenza.

Vi è poi da considerare che le cause per responsabilità medica sono soggette a condizione di procedibilità: il previo esperimento di un tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5 d. lgs. n. 28/2010 o, in alternativa, di una consulenza tecnica preventiva ai fini della conciliazione della lite ex art. 696-bis c.p.c., come previsto dall’art. 8 della l. n. 24/2017 (c.d. legge Gelli-Bianco).

In effetti, dal 20 marzo 2010 (entrata in vigore del d. lgs. 28/2010) fino al 1 aprile 2017 (entrata in vigore della l. 24/2017) era prevista soltanto la mediazione obbligatoria; oggi, invece, il difensore può scegliere discrezionalmente come realizzare la condizione di procedibilità, fermo, beninteso, l’obbligo di informare il cliente dell’esistenza di entrambe le opzioni e delle conseguenze derivanti dalla scelta.

Un altro aspetto da considerare, quando si incardina una causa per responsabilità medica, riguarda la scelta e l’individuazione dei convenuti (struttura/medico/i) e, con questa, del tipo di responsabilità gravante su di essi (contrattuale/extracontrattuale).

Coinvolgere tutti, errore compiuto spesso da professionisti non del settore o comunque non esperti in materia, non ripaga, anzi.
In presenza di più strutture e/o più sanitari coinvolti e di dubbi su chi effettivamente sia responsabile, sparare a zero su tutti indiscriminatamente non è consigliabile. È preferibile agire da cecchini.

È del tutto evidente, infatti, come il “danno da soccombenza” aumenti esponenzialmente con il numero dei convenuti, che tenderanno a chiamare in causa i loro assicuratori, anch’essi a spese dell’attore soccombente, e non del legale, ovviamente.

Oltre tutto, una siffatta strategia processuale potrà essere anche oggetto di valutazione da parte del Giudicante che, ritenendola inadeguata anche con prognosi ex ante, comporterebbe una responsabilità del difensore: come quando risultino citati in giudizio (anche) soggetti palesemente estranei ai fatti.

In definitiva, affinchè si voglia offrire al cliente un servizio eccellente e professionale, sarà sempre necessario uno sforzo adeguato del difensore e del suo consulente medico legale per individuare con precisione la struttura ed eventualmente il medico cui sia imputabile la condotta colposa causativa del danno; e per quanto, talvolta, questo sia un compito impegnativo e magari anche oneroso (visto che i bravi CTP si fanno giustamente pagare), non si può pensare d’aggirare il problema confidando che, tra molti convenuti, i veri responsabili emergeranno comunque all’esito del giudizio. Assolutamente sbagliato e scorretto.

Infine, altro aspetto da considerare è la scelta di chi citare in giudizio: meglio la struttura sanitaria o anche il medico?

Occorre innanzitutto considerare che, quantomeno dall’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, non vi sono più dubbi sulla natura della responsabilità in cui incorrono, rispettivamente, le strutture sanitarie pubbliche e private (che rispondono a titolo di responsabilità contrattuale) e gli esercenti la professione sanitaria (che rispondono a titolo di responsabilità contrattuale). E’ noto che, per l’attore, è molto più semplice invocare una responsabilità di tipo contrattuale, e quindi citare la struttura, piuttosto che aquiliana; e infatti, come osservato anche di recente, «la ratio legis della Legge Gelli-Bianco n. 24/2017 è proprio quella di rivolgere le richiesta risarcitorie da parte del paziente danneggiato nei confronti unicamente della struttura ospedaliera (pubblica o privata) e della sua compagnia di assicurazione che, peraltro, stante la mancanza dei decreti attuativi previsti dall’art. 10 non è opportuno evocare in giudizio direttamente».

Invocando l’inadempimento, l’attore potrà limitarsi a provare l’esistenza del contratto (di spedalità o d’opera professionale), del danno e -anche solo in via presuntiva- del nesso di causalità tra l’errore del medico e l’aggravamento delle proprie condizioni di salute (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28991); non sarà onerato, invece, di provare la colpa del medico, essendo sufficiente allegarla. Assolti tali oneri, spetterà al convenuto -a pena di soccombenza- dimostrare che l’inadempimento non vi è stato, o che, quantomeno, non è stato causa efficiente dei danni lamentati dall’attore.

Per poter ottenere la dichiarazione di responsabilità extracontrattuale del medico, invece, il paziente sarà tenuto a fornire, in aggiunta a quanto sopra, la non facile prova della concreta condotta colposa o dell’omissione asseritamente causativa del danno.

In conclusione, al giorno d’oggi più che mai, l’avvocato che si accinga ad assistere un cliente seriamente danneggiato da una malpractice medica deve essere innanzitutto altamente preparato e specializzato nel settore, ma anche consapevole dell’enorme lavoro preparatorio che una simile causa richiede, lavoro che non è rimesso soltanto al difensore -che tuttavia sarà sempre il responsabile ultimo- ma anche a uno o più validi consulenti medici di parte.

Questo lavoro preparatorio, talvolta, potrà concludersi nel senso di sconsigliare l’azione legale. Ciò andrà fatto informando il cliente dei rischi reali di soccombenza e dei costi ragionevolmente presumibili in caso d’insuccesso, oltre che acquisendo il consenso formale a procedere, qualora il cliente intenda consapevolmente correre un rischio ragionevole, e financo rifiutando l’incarico, allorché sia chiaro che non di rischio di soccombenza si tratta, ma di certezza o quasi.